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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
Agosto 2005

16 agosto 2005
DENUNCIA PT. 2

Lasciate che continui a parlare dello stato della musica in Italia, ed in Liguria nello specifico. Lasciate che continui ad urlare al vento quello che è sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno se ne renda conto. Io stesso ho dovuto lasciare che qualcuno mi obbligasse a sbattervi la faccia, per accorgermene e conoscere la verità. Ma ora finalmente vedo con occhi più trasparenti. Ora mi illudo di sapere qualcosa in più, e voglio cercare di comunicarlo.
Ho già accennato in precedenza i problemi a cui vanno incontro i gestori dei locali che vogliono far suonare dei gruppi dal vivo. Orari sempre più proibitivi, licenze, diritti SIAE. Un musicista che voglia proporre la propria musica dal vivo si deve battere con tutti questi problemi, ma non solo. Non è finita qui. Finora ho tralasciato un argomento di importanza fondamentale. Finora ho affrontato il problema dal punto di vista del locale, ed è giunto il momento di guardare i musicisti. È giunto il momento di far notare un altro, enorme e mai citato problema. La venuta dei DJ.
Sia chiaro fin da subito che non sto parlando dei paladini della musica elettronica, che sono poi dei veri e propri musicisti, ma di semplici dj magari improvvisati che, con una console davanti o un comune impianto stereo decente, allietano l’atmosfera musicale di un locale diffondendo per l’aere canzoni vecchie e nuove, e più o meno famose. Ad un proprietario di un locale, un dj costa decisamente meno di un gruppo che suoni dal vivo. Occupa meno spazio, non sporca, non propone pezzi propri che quindi rischierebbero di non soddisfare la clientela. In poche parole, un dj sembrerebbe essere il classico “uovo di colombo”: tutti se ne vanno soddisfatti. Gestore, dj, avventori. Il gestore è contento perché spende tanto quanto spenderebbe per pagare un gruppo, ma ha meno gente per il locale che avanza pretese assurde (il gruppo), e allo stesso tempo ottiene il tutto esaurito. Il dj è contento perché viene pagato bene per mettere dei semplici dischi, lui che magari non sa nemmeno usare decentemente una console. Il pubblico è contento perché ascolta, in un locale pubblico, una canzone di un artista che conosce bene senza che qualche gruppo sconosciuto gliela rovini nel caso capiti in una serata “tributo a XYZ”. Tutti sono contenti. Il problema, allora dove sta?
Il problema in realtà è enorme, ed è tutto per coloro che della musica fanno o vorrebbero fare la propria professione. Con l’aumentare di situazioni come quelle descritte sopra, un musicista avrà sempre meno luoghi dove proporre e suonare la propria musica, e sarà sempre visto come una persona che chiede tanto per quello che propone. Verrà sempre paragonato ad un ragazzetto che “mette su” dei dischi ottenendo molto di più.
Ma nessuno si fermerà mai a riflettere alle ore che il musicista ha dedicato, nel corso della sua vita, ad imparare il proprio strumento. Nessuno si fermerà a pensare che per suonare alle 21 in un locale, un gruppo composto da quattro musicisti dovrà iniziare a preparare i propri strumenti alle 17, trasportarli a proprie spese fino a destinazione, preparare gli strumenti in un palco che quasi mai soddisferà le proprie esigenze, elemosinare una cena e, dopo tutto questo, invece di potersi finalmente riposare, dovrà salire su un palco ancora al massimo delle proprie potenzialità per suonare al meglio delle proprie capacità, e questo perché il pubblico non perdona mai un errore quando si suona dal vivo. Nessuno penserà che una cover sia stata suonata meglio del pezzo originale che “ha sempre e comunque il suo fascino”. Nessuno capirà mai tutti gli sforzi che deve fare un musicista, i salti mortali che deve compiere per essere degnamente pagato per il servizio che sta offrendo. Un concerto di circa due ore è preceduto da almeno tre ore di preparativi. E poi, finite le note dell’ultima canzone, bisogna mettere tutto a posto. Riportare tutto a casa. E questi sforzi, pensiamoci un attimo, quando mai vengono giustamente ricompensati? Quando si è alle prime armi, spesso si suona gratis con la motivazione di farsi conoscere. Ma poi? Cosa succede poi?
La realtà è che la musica viene sempre più concepita come un prodotto finale ottenibile tramite una catena di montaggio, e non come il risultato dell’ispirazione di un artista che cerca di trasmettere le proprie idee, emozioni e pensieri, attraverso accordi di settima o diminuiti. Si sta cercando insomma di volgarizzare e industrializzare la musica. Ma la musica è ispirazione, è sudore e fatica, è improvvisazione, è tutto questo e molto di più. Non può sparire. Non deve.
Un gruppo dal vivo, per quanto sia ancora alle prime armi, vale più di dieci dj, vale più di cento impianti stereo lasciati quasi in balia di se stessi. Un gruppo dal vivo è la dimostrazione che la musica è ancora viva, e che non scomparirà. Al prossimo concerto a cui assisterete, guardate la stanchezza fisica negli occhi dei musicisti che suoneranno davanti a voi. Andate a stringere loro la mano a fine serata. Magari non sarà con quello, che convinceranno il gestore del locale a farli suonare un’altra volta. Ma chissà. Chi può saperlo? A volte basta così poco...


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15 agosto 2005
FERRAGOSTO

Aspettavo questo giorno da un anno. Aspettavo questo giorno da quando, esattamente 365 notti fa, scoprii per la prima volta la bellezza di Genova nel breve dipanarsi di queste ore.
Genova, il giorno di ferragosto, è come uno scrigno che contiene tesori. Pochi osano avventurarvisi, pochi sono coloro che hanno resistito alla tentazione di fuggire via, magari anche solo per poche ore, dalle mura di cemento che li circondano in tutte i giorni della loro vita. Cammino tra questi pochi fortunati e coraggiosi e mi rendo conto di una cosa. Genova, il 15 agosto, non appartiene più ai genovesi.
Le strade sono deserte e silenziose. Sento in lontananza grida di gabbiani, e vedo piccioni volare a bassa quota in un territorio che normalmente è riservato alle macchine ed ai motorini che inesorabilmente sfrecciano via. Ma oggi, di tutte queste macchine e motorini non v’è nemmeno l’ombra. Le strade di Genova sono proprietà dei piccioni e di quei numeri arancioni lampeggianti che compaiono sulla facciata degli autobus, gli unici mezzi che si vedono circolare dopo le 14. Ho quasi la sensazione di vivere in un universo parallelo, se penso che fino a dieci giorni fa queste stesse strade erano solcate da una fiumana di tifosi inferociti che bloccavano il traffico e causavano non pochi disagi a tutti i pendolari che dovevano tornare a casa dopo una dura giornata di lavoro. Oggi, queste larghe strade sono un territorio nuovo, e mi ritrovo ad immaginare che potrei tranquillamente camminarvi al centro senza alcun pericolo. I semafori continuano la loro monotona vita, ma nessuno li guarda in faccia, nessuno avverte il loro eterno cambiare colore, nessuno li rispetta per quello che dovrebbero valere. Nessuno.
Genova oggi non appartiene ai genovesi, dicevo. Si, perché gli unici volti che si incontrano per le strade in questa calda giornata di agosto appartengono a persone straniere. Sui marciapiedi afosi e bollenti vedo proprietari di ristoranti cinesi, praticamente gli unici servizi rimasti aperti, ed enormi zaini sulle spalle di turisti che chiedono indicazioni alla prima persona che incontrano. Spiego velocemente ad un tedesco come arrivare a Palazzo S. Giorgio, e gli lascio la mia cartina dei vicoli che avevo casualmente nella borsa. Mi ringrazia apertamente, e lo saluto guardandolo andare via, con la speranza che il mio gesto di gentilezza possa spazzare via dalla mente di almeno uno straniero il luogo comune sulla chiusura del popolo ligure.
Volgo i miei passi verso il porto antico, e lì la città appare meno deserta, e sempre più invasa dai turisti. Si allontana anche l’ora di pranzo, evidentemente, e allora tutti in giro a guardare il bigo, la sfera di Renzo Piano, l’acquario. Il cielo è limpidissimo, e si specchia sulle onde di un mare piatto e azzurro come non lo vedevo da qualche settimana, oramai. Mi accorgo che cerco di camminare all’ombra perché, non appena finisco sotto i raggi del sole per neanche cinque secondi, mi sembra di esservi esposto da almeno mezz’ora, da quanto faccia caldo. Ammiro sorpreso alcune facciate di palazzi finalmente rimesse a nuovo che non avevo mai avuto la fortuna di notare, nel caos del traffico quotidiano. Osservo ogni singolo lampione e mi rendo conto di come in alcune vie vi siano ancora i cavi per il filobus, e mi ritrovo a pensare che non so nemmeno più da quanto io non vedo un filobus per le vie di Genova. O forse ci sono, e sono io che non me ne accorgo. Eccola, la superficialità con la quale osservo la città in cui vivo.
I vicoli sono percorsi da più poliziotti di quanti ne ricordi in una normale giornata di ottobre. Strano. I negozi sono quasi tutti chiusi, e sulle serrande accuratamente tirate giù spiccano cartelli bianchi con sopra scritte variopinte del tipo “chiuso per ferie”, “riapriamo il 28 agosto”, “buone vacanze anche a voi”, “governo ladro”, “domani aperto”. Anche le grosse catene come Ricordi, FNAC, Mondadori e Feltrinelli sono chiuse. Serrate. Blindate. McDonald, invece, miracolosamente resiste. Uno su due, almeno.
Alla fine, dopo circa tre ore e mezza di passeggio per questo deserto cittadino, decido che è giunta l’ora di tornare a casa, e mi dirigo verso la stazione di Brignole. Entro, e rimango sorpreso dall’enorme quantità di persone che vi sono dentro. Come se tutti i turisti si siano dati appuntamento oggi, a quest’ora, proprio qui davanti all’edicola. Incontro casualmente un amico, che mi svela l’arcano: stanno andando tutti a Koln, in Germania, per la giornata della gioventù, mi sembra di aver capito, e l’incontro con il papa.
Stanco, aspetto l’arrivo del treno, e guardo per l’ultima volta le facciate di alcuni palazzi. Da domani, ne sono quasi sicuro, ricomincerò a non guardarle più...

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14 agosto 2005
MAELSTROM

...ancora un sorso. Ancora uno. Lascio che le bollicine svaniscano nell’etere dell’incoscienza e tutto scompaia su queste note che infondono gioia di vivere, e paura di soffrire. Offro tutto me stesso alla più profonda essenza di me e scopro che il nero è il colore dell’anima, è il colore dell’assenza delle vita, e il colore dell’amore stesso e più incondizionato.
Odio tutto quello che sto vedendo e allo stesso tempo imparando da ciò che mi viene incontro ogni giorno di più, con lo scorrere di una singola ora nel misero spartito del viaggio verso la passione. Ho ricordato i suoni di una vita passata e mi sono immaginato una faretra di semplice ma incondizionato metallo, da abbracciare e da allontanare, da amare e detestare, da ammirare.
Ho ritrovato la misura di tutto ciò che è risata e invidia, orgoglio e paura, applauso e timore. Ho ritrovato tutto me stesso, e mi sono spaventato dalle grida che emettevo, dalla gioia che esprimevo, dalla vita che ammiravo. Ho ritrovato la penna, e ho cominciato a scrivere. Per me. Per te. Per i Maelstrom...
...che ci hanno regalato emozioni concepite da Iron Maiden, Angra, Stratovarius, Sonata Artica, Europe, Whitesnake, e molto di più. Ci hanno regalato emozioni di una serata trascorsa tra amici, a cantare canzoni che ti toccano il cuore e ti bruciano l’anima, canzoni che ti appaiono nitide in mente non appena le senti e ti lasciano un solco profondo nella memoria non appena sfumano via. Ci hanno regalato canzoni composte da loro che non fanno altro che dimostrare che c’è sempre da guadagnare a seguire il cammino già percorso da altri, perché bisogna imparare dal passato, bisogna capire quanto detto da altri prima di riuscire a muovere i nostri primi passi. E loro, i Maelstrom, hanno dimostrato di aver imparato bene le lezioni che i maestri prima di loro hanno avuto l’onore di impartire a noi mortali. Il metallo, quello puro. Genuino. Il metallo, quello vero. Candido.
Sono saliti sul palco e hanno rovesciato un locale, il Nota bene Live di Rapallo, come se fosse un vecchio guanto sgualcito dal tempo. Hanno preso possesso del piccolo palco e hanno dimostrato tutto il loro valore dopo neanche lo spazio di una canzone, dopo neanche il tempo di finire sorseggiando una buona birra chiara. Sono saliti sul palco e hanno iniziato a far circolare la magia di una serata all’insegna di una musica che potrà anche non piacere a tutti, ma che vale la pena di essere conosciuta. Magari disprezzata. Ma comunque ascoltata. Perché quelle note, quelle melodie, quei cori urlati dal cuore di tutti i presenti, non possono non lasciare qualcosa, nel più profondo di ciascuno di noi. Non possono lasciare indifferenti. Neanche un muro, resterebbe tale.
Lasciatemi quindi tornare con la mente a quelle note, a quelle melodie, a quei cori. Lasciate che mi scorrano nella mente ancora una volta. Lasciate che finisca questa dolce bevanda a base di tastiera, voce, chitarra, basso e batteria. Lasciatemi a lei. Ancora un sorso. Ancora uno...


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12 agosto 2005
JANET WEISS BLUE BAND

Avevo già avuto la fortuna di sentirli dal vivo, durante le selezioni al LogoLoco per partecipare al concerto del Primo Maggio a Roma, ed ascoltare il loro demo di due pezzi non ha fatto altro che rinfrescarmi la memoria e confermare quanto avevo già provato all’epoca. I Janet Weiss blue band sono un gruppo ligure dedito al beat, se vogliamo descrivere dubito e brevemente la loro proposta musicale. Se vogliamo restringere ancora di più il campo, potremmo paragonarli subito ai Blue Beaters di Giuliano Palma, e chiuderla lì. Ma, in fondo, non sarebbe giusto.
Non sarebbe giusto perché una canzone come “smoke rings”, anche se dalle sonorità già sentite e che rimanda ad altri tempi, è veramente affascinante. Sarà quell’unione di sax e trombe, sarà il fraseggio composito di cui si compongono strofa e ritornello, sarà anche la voce pulita e semplice al punto giusto, saranno tutti questi fattori messi insieme o magari sarà semplicemente il caldo afoso di questi giorni, ma quando ti entra in testa non ne vuole più sapere di uscire. La dolce melodia composta da strumenti classici e fiati inizia a cullarti dolcemente e ti prende per mano, portandoti lontano verse terre dimenticate e promettendoti quell’eldorado che nessuno osa più sognare.
Mi desto dal torpore e mi accorgo che è partita la successiva “lovely reggae”. Il titolo è già un ottimo indizio di cosa aspettarsi da questo brano: la cadenza è veramente jamaicana, e quel ritornello è sinceramente ipnotico. Ottimo l’uso delle tastiere, che si alternano alla perfezione incastrandosi tra un soffio di tromba e un respiro di sax. Parole sussurrate e ritmi che riportano alla memoria spiagge incantate sotto un sole oceanico, al dolce riparo dell’ombra regalata da una palma solitaria.
Accidenti, non volevo. Ho detto quella parola, e non avrei dovuto. Oramai è troppo tardi per cancellarla, ma voi che leggete non fermatevi alle apparenze. I Janet Weiss blue band sono più di qualche battito nel blu. Sono più di qualche palma.

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5 agosto 2005
SPLINDEPARÌ LIVE

Mi infrango dolcemente sugli scogli. Mi infrango e sorrido. Lascio che la risacca scompaia dolcemente, ed il sale si illuda ancora una volta di potersi sciogliere completamente. Tanto, domani sarà ancora lì, al suo posto. Domani sarà ancora una parte integrante di me, e allieterà tutti quei bagnanti sulle spiagge di Rapallo che si vedranno i nudi corpi ricoperti di alghe e sale fino all’arrivo sotto una doccia gelata. Ma adesso, fino allo spuntare di un nuovo sole, posso permettermi di osservare quello che succede oltre i miei confini, là dove non potrò mai arrivare, sulla terraferma.
Stasera, 27 luglio 2005, il comune di Rapallo in collaborazione con il locale Nota bene Live ha organizzato un concerto sulla passeggiata, ed io ho l’onore di avere un posto in prima fila. Ci sono anche gruppi di pescetti che sono venuti apposta dalla vicina Santa Margherita per assistere. E attorno alle 22, la musica inizia a diffondersi per l’aria e giunge fino a qui, fino a noi, dove inizia a danzare sul lieve ondeggiare delle acque marine.
Loro sono gli Splindeparì. Cinque ragazzi, ciascuno con il proprio strumento. Propongono, da quanto riesco a sentire, una sorta di rock melodico con spunti progressivi che mi ricordano immediatamente la Premiata Forneria Marconi. Il pubblico li accoglie calorosamente, acclama ogni loro canzone e si ritrova a ballare e cantare con loro quando propongono cover di artisti più famosi. De Andrè, Litfiba, U2, Bon Jovi, Blur, Camerini, Elio e le Storie Tese, Van Halen, Vasco, OMD, sono solo alcuni dei nomi che i pescetti mi urlano nelle orecchie non appena partono le rispettive canzoni. Che poi, se proprio devo essere sincero, mi sono sempre chiesto come facciano i pesci ad urlare, loro che non sanno nemmeno parlare e a cui puoi confidare tranquillamente i tuoi segreti più intimi, tanto hanno sempre l’acqua in bocca… ma questa è un’altra storia.
Gli Splindeparì propongono parecchie cover, tutte sotto la forma di medley in modo da essere legate l’una all’altra, al punto che non si sa mai dove comincino e dove vogliano arrivare. Ma è sui pezzi originali che mi emoziono maggiormente. Dicono di essersi ispirati alle atmosfere di poeti quali Baudelaire, e non posso dar loro torto: suoni tristi ma caldi, sonorità decadenti, fugaci impressioni di malessere si spartiscono il campo con improvvise esplosioni di curiosità artistica e sonora. Brani quali “Triade”, “Cristalli” e “Solo questo” sembrano proprio delle ballate concepite da musicisti che conoscono perfettamente il proprio strumento e sappiano esattamente quello che vogliono trasmettere. Emozioni arpeggiate e correttamente ritmate, con una voce calda che accompagna e mai sovrasta il percorso musicale di quegli strumenti che creano una vera oasi di suoni e parole. Cori che si alternano a melodiche linee di basso e arcani suoni di tastiera, fino a sollevare gli animi dei presenti ad un livello di ammirazione sempre più alto, sempre più intimo, sempre più vero. Continuano con “Amnesia” e “Stea”, fino ad arrivare a quella “Sotto mentite spoglie” che squarcia il velo più decadente della loro musica per offrire raggi di sole in questa calda serata estiva.
Dopo due ore piene di concerto, i pescetti mi salutano e si dirigono verso le loro onde natie. Io, rimasto qui, osservo le facce serene e felici di musicisti e pubblico, che si ringraziano a vicenda, si salutano, si danno appuntamento al prossimo concerto. Mi piacerebbe poter dire che ci sarò anche io. Mi piacerebbe ma, ahimè, ho anche io i miei limiti, e non posso andare al di là di questa spiaggia. Peccato. Vorrà dire che mi farò raccontare il prossimo concerto degli Splindeparì dai gabbiani, o da chi per loro. Saranno forse più loquaci dei pescetti, ma almeno mi terranno aggiornato sulle sorti di questo gran gruppo rivierasco.

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