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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
Giugno 2006

27 giugno 2006
DALLA RUSSIA CON AMORE

Ci sono sere in cui hai talmente tante opportunità che non sai proprio che cosa fare. Incredibile, anche a Genova. Non sai cosa scegliere, dove andare, chi vedere. In quelle sere, inizi a pensare che non è giusto che proprio due giorni prima giravi da solo come un cane in Sottoripa, cercando con tutte le tue forze qualcosa che avrebbe potuto attirare la tua attenzione, qualcosa da fare, qualcosa da andare a vedere. E quando capitano le sere di “piena”, ahimè, inevitabilmente qualcosa va storto.
Sabato 26 giugno era una giornata affascinante. C’era il Crevarinvade, il Play Festival, gruppi suonavano a Villa Rossi, ai giardini Malinverni, c’era la Festa della Birra, e tanto altro ancora. E non avevo voglia di uscire.
Alla fine, trainato fuori casa da un gruppo di amici fidati, sono finito a pascolare nei vicoli, quegli stessi vicoli che osservo tutto l’anno e che mi tengono compagnia quando sono triste, quando sono felice, e anche quando sono medio. Sempre, insomma. Ho percorso via del Campo, con i suoi lastroni tutti dissimili e dissestati, e mi sono soffermato in piazza Banchi, un cantiere all’aperto in questo periodo dell’anno. Ho percorso via San Lorenzo e mi sono fermato davanti alla splendida cattedrale bicolore, con i suoi turisti sempre presenti tutti attorno manco avessero aperto un ostello lì davanti. Ed è stato allora che ho iniziato a sentire la musica. Ah, quella musica.
In piazza Matteotti c’era un palco. Enorme, come palco. E bello. Su quel palco, si stavano alternando due gruppi folk di chiare origini sovietiche, alternandosi a balli russi di danzatori in costume. Due gruppi composti da musicisti in splendida forma, circondati da strumenti tanto insoliti quanto ovviamente affascinanti. Le musiche che proponevano erano un misto di ballate tradizionali del loro paese, inframezzate con brani di repertorio di musica classica o moderna. Ho ascoltato il “Peer Gynt” di Grieg in mezzo ad una colonna sonora di “Pulp fiction”, con un contorno di Shubert alternato ad una evocativa “O sole mio”, con un pizzico di “We will rock you” e una spruzzata di “O surdato ‘nnamurato”. Il pubblico presente apprezzava lo spettacolo che si parava davanti ai suoi occhi e incalzava i musicisti a suon di applausi, incitando quel batterista che si alternava tra i suoi piatti ed uno strano xilofono, o le balalaike che vibravano in splendide armonizzazioni.
Entrambi i due gruppi provenivano da Ekaterinburg, sugli Urali, e riuscivano a trasmettere a storia del loro paese con quegli arrangiamenti moderni di canzoni tradizionali e non, come se fossero un’unica cosa, come se le origini di un paese potessero mescolarsi leggiadramente con tutto il repertorio musicale degli ultimi secoli senza risentirne affatto. La gente intorno a me ballava con loro, gioiva con loro, cantava con loro. Partecipava.
Sono rimasto talmente ipnotizzato da tutti quei suoni per quasi due ore, fino alla fine del concerto e delle danze, che quando hanno terminato l’esibizione mi sono sentito come svuotato. L’incanto era finito. Spezzato dal tempo. Perduto. All’improvviso ero di nuovo in quei vicoli di Genova che per un paio di ore mi erano sembrati lontani migliaia di chilometri, e non riuscivo ancora ad accettarlo.
La serata era finita, ma mi aveva lasciato qualcosa che mi terrà compagnia per tanto tempo. La magia di un sogno. La magia di una città lontana. La magia della Russia.

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25 giugno 2006
ADMIRAL BACKBARENTS & SALINAS

Sono astemio.
Sono astemio e per sopravvivere alla noia di serate tutte uguali e fini a se stesse, esco in solitudine e vado alla ventura. Parto senza una meta precisa. Non so nemmeno io dove finirò. Qualche sera fa, per volere del fato, sono giunto al Madeleine. Il caldo scoppiava prepotente tra quelle mura schiacciate e compresse, e tutto attorno si respirava il nero più opprimente di un inizio estate che toglie il respiro. Era il 23 giugno, e credevo fosse già pieno agosto.
Devo combattere la noia, dicevo. E quella sera mi sono imbattuto negli Admiral Backbarents e i loro suoni grezzi e sporchi, mi sono imbattuto nella loro rabbia estroversa e nella passione che trasmettono nel suonare. Confesso, i primi brani che ho sentito mi hanno ricordato certi gruppetti punk alle prime armi che non sentivo dai tempi del liceo, quando andavo a sentire amici suonare per la prima volta il loro strumento alla bocciofila di Camogli. Ma dopo qualche pezzo, nota dopo nota, canzone dopo canzone, gli Admiral mi hanno dimostrato di essere superiori ai miei ricordi, e anche più preparati tecnicamente. Un trio che ricorderò per un po’, complice anche quella splendida salita sul palco. “Abbiamo pezzi per una trentina di minuti, e dobbiamo suonare per tre quarti d’ora. Beh, facciamo pausa.” Ed un demo nella mia tasca.
Il caldo continua. Esco dal locale per riprendere fiato, e far riposare la mente. Scambio due veloci parole con la luna che mi sorveglia da lontano, e rientro per ascoltare il prossimo gruppo. Ne avevo sempre sentito parlare, ma non avevo mai avuto l’occasione di sentirli dal vivo. I Salinas, intendo.
Una formazione curiosa. Due chitarre e una batteria, senza basso. Una precisione di suoni a dir poco spaventosa, e melodie che rimangono in testa dopo pochi secondi. Un gusto musicale che è difficile trovare in gruppi indie, se così possiamo restringere e catalogare i Salinas, autori di un concerto incantevole, e mai raffazzonato. Al termine della performance mi avvicino al cantante e gli chiedo il perché dell’assenza di uno strumento così importante per la sezione ritmica. “Vedi, noi componiamo i brani spontaneamente, e ci amalgamiamo automaticamente l’uno all’altro. Il giorno che troveremo un bassista che si incastrerà alla perfezione nel nostro modo di comporre e suonare, allora avremo un bassista”. Logico. E semplice.
Mi allontano all’una passata dal Madeleine con la certezza che la serata è finita, e la noia per una sera è stata sconfitta. I ricordi dei gruppi resteranno con me e mi accompagneranno per le notti a venire, qualora non riuscissi a sconfiggere quel male che mi porto dentro. Mi sono ritrovato a cantare le mie mura nel silenzio del caldo dell’anima, in assenza di quella consolazione che un bicchiere di vino può promettere dopo un sorso di sincerità.
Dopotutto, sono ancora astemio.
Bevo solo in occasioni particolari. Ai matrimoni, quando esco con gli amici, ai concerti. Può bastare.

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9 giugno 2006
DE ANDRÈ E NON SOLO…

L’atmosfera nasce soffusa, e si respira nell’aria tutto l’incanto di un magico incontro di luci fatate.
No.
Prendi un dio e chiedi perdono. Chiedi perdono per tutto quello che hai commesso, ma soprattutto per quello che non hai fatto. Non c’eri, quella sera.
No.
Un abbraccio di note in grado di riscaldare l’anima, una voce che incanta con l’accompagnament...
Può andare.
Un abbraccio di note in grado di riscaldare l’anima, una voce che incanta con l’accompagnamento di una chitarra mai sopra le righe, sempre presente al fianco di quella voce fatata. Ieri sera, alla Città Vecchia, si sono esibiti Angela Moscato e Cristiano Angelini. Hanno presentato ad un locale stracolmo di persone la loro interpretazione di molte canzoni di Fabrizio De Andrè, orgoglio perenne della nostra Genova. Hanno presentato ad un locale stracolmo di anime assetate di poesia un grappolo di canzoni scelte non a caso dal vasto repertorio di rime e note genovesi che ci sono state lasciate in eredità.
Angela era emozionata, prima di iniziare ad intonare quelle canzoni. Angela era tesa, prima di dare il via alle danze con la sua voce. Ma è bastato prendere il microfono e lasciare che tutto il resto venisse da sé, per stregare completamente un locale che non avrebbe potuto chiedere altro, da lei. “Sidan capudan pascià” ha spezzato il silenzio, e non ha senso adesso cercare di ricordare ogni singola emozione, ogni singola nota, ogni singola parola di quella scaletta così particolare. “Le acciughe fanno il pallone” ha seguito con il suo incedere calmo, e poi i ricordi hanno iniziato a svanire, a farsi fumosi, colmi com’erano dall’incenso emotivo che si respirava nell’aria. Abbiamo cantato per “Sally”, ricordato “Fiume Sand Creek”, immaginato cosa succederebbe “Se ti tagliassero a pezzetti”, a me che mi sentivo “Il fannullone” della serata, e provavo ad intonare quella “Khorakhanè” tanto cara ai rom, o quella “Canzone di Marinella” mezza in italiano e mezza in francese. Abbiamo cantato con Angela e immaginato di suonare con Cristiano. Eravamo come un’unica persona, ieri sera.
E quando, verso la fine, ci è stata regalata “Carlo Martello”, non abbiamo più trovato nemmeno le parole per esprimere un sorriso. Era come se un incantesimo ci avesse racchiuso in uno scrigno di rose e deciso di cullarci fino al mattino. Non chiedevamo altro. Non avremmo mai pensato di desiderare niente di più.
Ma come tutte le favole, anche quell’incanto era destinato a finire, e così è stato. Angela si è accomiatata dal suo pubblico con “La canzone dei vecchi amanti” di Jacques Brel, e il silenzio è tornato tutto intorno a noi. Fino alla prossima esibizione, ovviamente.
Ma se proprio non sarete in grado di resistere all’attesa di un prossimo concerto, potete sempre provare a passare alla Città Vecchia, in un giorno qualunque. Chissà che non vi capiti di trovare Angela e Cristiano seduti a qualche tavolo, intenti a parlare in serenità. Chissà che poi non decidano di provare qualche nuova canzone, qualche nuova interpretazione, o qualche vecchio cavallo di battaglia. Chissà che alle loro due anime musicali non si unisca un sax o una seconda chitarra. Un pianoforte o un basso. Chissà. Sono cose che capitano, in certi posti fatati...

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