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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
Luglio 2000

10 luglio 2000
THE GATHERING - IF_THEN_ELSE

Era in vacanza, ma non ne aveva voluto sapere di separarsi da quel disco appena uscito, e ne era soddisfatto. Il Gatto Fenriz infilò per l'ennesima volta "If_Then_Else" nel suo lettore portatile, e lasciò che le note cullassero il suo viaggio in treno alla volta della Danimarca.
Si sbagliavano quelli che si illudevano in un ritorno a sonorità gotiche, e anche coloro che pensavano che il precedente lavoro "How to measure a planet?" non avesse lasciato tracce nel suono degli olandesi. Il nuovo disco era un perfetto seguito, un lavoro complesso e articolato che non perdeva quella freschezza compositiva che aveva già contraddistinto i Gathering in passato e che non era venuta a mancare nemmeno questa volta. Certo, i brani risultavano leggermente più brevi rispetto al masterpiece precedente, ma non erano per questo più immediati. Erano ricomparse quelle chitarre distorte che si erano leggermente liquefatte negli anni, lasciando spazio anche a evoluzioni sperimentali quasi elettroniche (ma non troppo!) che si amalgamavano alla perfezione con la voce di Anneke che come sempre trascinava l'intera opera.
"If_Then_Else" si apriva con il brano "rollercoaster", già presente sul singolo apripista, ed era forse, insieme a "saturnine", uno dei momenti più immediati ed allo stesso tempo evocativi dell'intera ennesima fatica dei Gathering. Musica che partiva lenta, cresceva e rallentava, ignorando le classiche strutture di una canzone che vorrebbero un susseguirsi canonico di strofe e ritornelli, usando invece cambi di melodia e sempre, sopra tutto, la voce calda e magica di una delle cantanti che il Gatto Fenriz più preferiva al momento. E cosa dire della stupenda "bad movie scene", lenta e triste, calma e allo stesso tempo trascinante, che andava a riprendere certi passaggi sfumati e onirici tipici di "Mandylion", senza ovviamente cadere nel banale o nel gotico scontato.
A tutto questo si aggiungeva inoltre l'utilizzo qua e là, senza sconvolgere il dipanarsi della musica, di una sezione di archi e di fiati che colmavano l'animo con suoni nuovi, pieni, ma che si integravano benissimo tra una chitarra ed un basso o una batteria.
C'era qualcosa che non andava in tutto questo ben di dio ascoltato fino a quel punto? Forse si. Si, perché a volte il Gatto Fenriz aveva l'impressione che vi fossero dei vuoti di tensione o di continuità che sopraggiungevano come per incanto e lo lasciavano come inebetito, senza che si rendesse bene conto di cosa fosse successo. Come se in alcune canzoni non fosse presente la vera anima dei Gathering, ma solo un tentativo non riuscito di trasmettere la proprie emozioni... ma forse era solo una sua impressione.
Nel silenzioso ritmare del treno che continuava il suo monotono viaggio verso lidi a lui sconosciuti, il Gatto Fenriz riascoltò con piacere la strumentale "beautiful war" e si addormentò. Sognò strane creature alate ed ebbe l'impressione che volevano comunicare con lui, quando il suo sonno fu interrotto dal tenero flusso di note di "morphia's waltz", e capì che forse si era sbagliato. L'anima dei Gathering era tutta lì, nascosta ma ben pronta ad uscire, se solo si sapesse ascoltare, senza per forza cercare un senso in tutto. SE uno ci avesse provato, ALLORA forse ci sarebbe riuscito. ALTRIMENTI, si sarebbe perso uno dei gruppi più in gamba dell'ultimo decennio. Provare per credere.

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10 luglio 2000
POWER SYMPHONY – LIGHTBRINGER

Con occhio divertito, il Gatto Fenriz accolse tra le sue zampette pelose il nuovo disco dei Power Symphony. Non si aspettava un granché, ad essere onesti, ma si sarebbe dovuto ricredere. Si, perché "Lightbringer" era un vero e proprio passo avanti compiuto dal gruppo italiano capitanato dalla vocalist Michela D'Orlando, e spazzava letteralmente via i vecchi lavori.
Non era presente la solita, classica, trita e ritrita tentazione di cadere nel power scontato (a dispetto di quanto potrebbe invece lasciar credere il nome), anche se era chiaro che venivano da quel tipo di background, e i Power Symphony dimostravano di sapersi destreggiare bene su sonorità abbastanza atipiche nell'attuale panorama italiano, spaziando e passando da momenti quasi gothic a melodie dall'immediato coinvolgimento, sfruttando bene ogni singolo strumento, ma puntando soprattutto sulla voce accattivante e calda di Michela.
Le prime note erano quelle di "the way of the sword", canzone dalla ritmica tendente al power che sfociava in una pausa centrale lenta ed evocativa, dalla melodia chiara e pulita, e una chitarra che gigioneggiava padrona dell'incedere del brano. Dalla seconda canzone iniziavano però ad uscire fuori anche alcuni lati negativi, come ad esempio una tendenza alla ripetitività che dopo un po' rischiava di stufare il Gatto Fenriz. I brani erano quasi tutti di durata medio-lunga, e dopo vari ascolti davano la sensazione di essere quasi forzati, come se fossero stati costruiti artificiosamente su un'idea ripetuta all'infinito.
Tra il succedersi dei brani spiccava comunque la ritmata "never dream of goodness", e andava anche ricordata anche la lenta "song of men" che nella sua semplicità era forse il momento migliore dell'album, mentre tutto il resto scivolava via, si perdeva nel limbo della musica dimenticata... volutamente abbandonata...
C'era poco da fare... il disco non reggeva il confronto con "Wishmaster" dei Nightwish uscito quasi in contemporanea, ed il Gatto Fenriz ne era dispiaciuto, perché i Power Symphony avevano dimostrato di voler uscire dagli schemi passati, ma con un disco ancora nettamente migliorabile.

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