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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
Giugno 2000

10 giugno 2000
REVENANT – JULIETTE

"...And now I fall into oblivion
dressed by winds and rain
and now I'm small in my conjunction with
the cold in icy earth..."


Era già andato a vedere un paio di loro concerti, e questo nuovo promo non faceva che confermare l'opinione che il Gatto Fenriz aveva di loro. I Revenant erano un buon gruppo black. D'accordo, non proponevano forse niente di troppo nuovo o originale, ma i miglioramenti in questo nuovo lavoro "Juliette" si sentivano eccome. Registrato negli immancabili Nadir Studios di Tommy Talamanca, i 30 minuti scorrevano via piacevolmente tra continui cambi di tempo e di melodia che coinvolgevano e non facevano annoiare l'ascoltatore. Il punto di forza del gruppo ligure era senza dubbio l'ambigua versatilità del cantante Deimos, capace di giocare con le proprie linee vocali come un bambino gioca con un pallone, riuscendo a stravolgere completamente i brani e dimostrando che non basta saper gridare per poter stare dietro un microfono. Notevoli anche i riffoni di chitarra creati da Phil e marco, oscuri e maligni al punto giusto, le potenti linee di basso di Joe e i ritmi ora stoppati ora indemoniati di Ale. Uscivano così brani come "Ravished" o "Beyond the tower of redemption" dal classico feeling black, ma si lasciava spazio anche a "La cute del male", atipica litania recitata in italiano che concludeva il promo-cd.
Il punto debole dei Revenant era quindi la poca originalità del prodotto, perché le idee c'erano e anche tante, ma andavano a sparire in un genere ed in una scena che era già stata spremuta fino all'osso. Il rischio era quello di passare inosservati. Ma il Gatto Fenriz sapeva anche che non si sceglie a tavolino il genere musicale da suonare. È la passione che c'è dietro...

"... I was sleeping near thee
thou strewn by warm palls
no more talking to me
thou were dead with my soul..."


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10 giugno 2000
LOVE LIKE BLOOD - ENSLAVED + CONDEMNED

I Love Like Blood erano tornati, e avevano regalato l'ennesimo gioiellino di ineguagliabile gothic rock. Il Gatto Fenriz era letteralmente estasiato.
L'album si apriva con la cadenzata e avvolgente "love kills", che nei suoi 7.15 minuti coinvolgeva l'ascoltatore nelle classiche atmosfere della band tedesca. Stupenda come al solito la voce di Yorck Eysel, vero condottiero nelle tenebre insieme al fratello Gunnar di una realtà musicale decisamente unica. I brani scivolavano via quasi senza consapevolezza, con una leggiadra malinconia latente a coprire l'intera opera, e lasciavano il Gatto Fenriz come ammantato da un velo dark e soddisfatto dell'intera ora appena passata. Non un minuto sembrava andato perso.
Come non menzionare quindi "bleeding", con una chitarra vagante e spaziosa che ora accompagnava la voce e ora comandava l'incedere dell'intera strumentazione... come non ricordare poi la pseudo acideggiante "the river", triste ma allo stesso tempo carica di grinta... e "the silver shot", con quelle quattro note centrali che richiamavano addirittura "kayleigh" dei grandi Marillion...
Le danze si chiudevano infine con l'accattivante "remember", coinvolgente fino all'anima e carica di quell'emotività unica che riuscivano a trasmettere solo i Love Like Blood, epicamente tragica nel suo dipanarsi.
Un applauso particolare andava poi all'artwork, realizzato dallo stesso Gunnar Eysel, che chiudeva un cerchio fatto di arte musicale, lirica e grafica.
I veri padrini del rock darkeggiante e gotico avevano ristabilito la loro supremazia, con un album destinato a diventare un piccolo classico nella loro già più che decennale discografia.

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10 giugno 2000
DEEPSKIN – JUDAS

Il Gatto Fenriz aveva erroneamente creduto di trovarsi di fronte ad uno sconosciuto gruppo portoghese, gli ultimi arrivati che provavano a scimmiottare il suono già esplorato dai Moonspell di "Sin/Pecado". Si era però sbagliato. Già, perché i Deepskin erano guidati da Ares, quello stesso Ares che aveva militato nei Moonspell dei primi album, e la miscela sonora che ora riproponeva con il suo gruppo era un figlio illegittimo proprio di alcune sonorità dei suoi ex-compagni, ma senza raggiungere la loro intensità compositiva.
Basi industriali e con poche idee facevano da sfondo a voci filtrate e decadenti che ora apparivano e ora sparivano cercando di dare un pizzico di melodia al tutto. Non mancavano certo i momenti interessanti come nella canzone "crushed", o in "rubber black" ove si avvertiva quasi un senso di malata epicità, ma in definitiva potevano essere considerati poca cosa considerando anche la brevità del disco.
Melodie cantilenanti e ripetitive, tastiere che ora con suoni aperti e ora con effetti vari cercavano di riempire i vuoti creati da chitarre spesso poco espressive, mai concludenti o avvincenti. Anche "underskin", che a tratti sconfinava in un'acidità vocale e sonora, alla fine lasciava con una sensazione di infelicità e insoddisfazione latente. C'era però qualcosa, un certo "non so che" che poco per volta, ascolto dopo ascolto, aveva iniziato a stimolare il Gatto Fenriz, come se al di sotto delle molte lacune del disco si celassero invece delle grandi doti, delle immense possibilità. Certo i Deepskin si sarebbero dovuti prima liberare di tutti i fantasmi del passato, e poi allora chissà...

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10 giugno 2000
ALICE COOPER – BRUTAL PLANET

Acido. Così si presentava fin dall'inizio l'ennesimo capolavoro di Alice Cooper alle orecchie del Gatto Fenriz. "Brutal planet" era infatti un vero e proprio passo avanti fatto da Vincent Furnier (l'alter ego della vecchia Alice), in quanto andava a incastrarsi benissimo nell'attuale panorama metal statunitense, spazzando letteralmente via nomi quali Marylin Manson o addirittura Korn. Non esistevano più rivali, e i successori ritenuti tali sparivano immediatamente come nebbia al sole.
Il valore della melodia tuttavia non era andato perso, e Alice sapeva bene come farne uso. Era così che nascevano brani come la titletrack e "wicked young man", occhieggianti alla tecnologia ma allo stesso tempo senza mai farsi prendere la mano da eccessive divagazioni o sperimentazioni che avrebbero rovinato l'appeal finale dell'intero disco.
L'album era un concept sulla pericolosità della tecnologia nella vita dell'uomo di fine millennio, e mai forse si era sentita un'atmosfera così opprimente in un lavoro di Alice Cooper, soprattutto per chi fosse abituato ai suoi vecchi cavalli di battaglia quali "school's out" e "i'm eighteen" o alla ruffianità delle più recenti "poison" e "hey stoopid". "Brutal planet" era la maturità di un artista che non temeva di dire la sua e dimostrava anche di divertirsi facendolo, arrivando addirittura ad autocelebrarsi nei brani "gimme" e "it's the little thing".
Un disco vario e allo stesso tempo uniforme, come dimostravano la quasi punkeggiante "sanctuary", l'epica "pick up the bones" dall'inizio lento ed evocativo che poi scoppiava nel ritornello, la ritmata "pessy-mystic" e la conclusiva pseudo cantilenante "cold machines", tutte ugualmente tetre e oscure nello stile del concept di sottofondo, ma che non riuscivano proprio a stancare il Gatto Fenriz.
Un discorso a parte lo meritava "take it like a woman", la pecora bianca in un mondo di pecore nere come la pece. Una ballata triste e contemporaneamente disillusa, che poteva benissimo essere il seguito perfetto della classica "only women bleed" comparsa sull'album "Welcome to my nightmare" del 1975, il primo disco solista di Alice Cooper.
Prodotto da Bob Marlette ed il solito Bob Ezrin, "Brutal planet" si candidava ad essere uno dei MUST del 2000. Non più semplice rock, e nemmeno catalogabile nel puro e schietto metal. Non un'opera facilmente assimilabile, ma un'esperienza da vivere più e più volte, finché non si senta il sangue che pulsa nelle vene e il cuore che palpita aspettando il prossimo capolavoro. Da amare fino alla morte.
We're spinning 'round on this ball of hate...

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