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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
Febbraio 2005

14 febbraio 2005
S. VALENTINO

Abbracciati a te stesso
e rinuncia a tutte le illusioni
di un’eclissi immanente,
non sei altro che un soffio di colore
non sei altro che una goccia di dolore
dimenticata sul piano dell’esistenza
come un vettore impazzito
tangente all'infinito
ad una curva divergente.

Abbracciati a te stesso
e dimentica il sapore dei ricordi
fino allo spuntare di uno spillo
nel cuore di un vecchio appena nato.

Abbracciati a te stesso
sei solo con i tuoi dissapori
ma niente su cui piangere
finchè resisterai al calore del grigio
al calore del nulla
che ti avvolge sempre più
tra le sue spire malferme e costanti.

Abbracciati a te stesso
e brinda alla vita con la tua coscienza
siamo in una valle di incostanze
realizzatesi per il volere di un dio rinnegato
dall’amore eterno.

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8 febbraio 2005
KARI

Prendete un fiore appena sbocciato.
Prendete il pianto di un bambino.
Prendete un tenue tramonto sul mare.
Prendete tutte queste emozioni, e fatele vostre. È grazie a loro che riuscite a tirare avanti, nella grigia vita di tutti i giorni. È grazie a loro che le vostre speranze in un futuro migliore non svaniscono con lo svanire della luce al termine di sedici ore di strenua resistenza ai quotidiani attacchi della vita. È grazie a loro che apprezzerete la musica di Kari Rueslåtten, e tutto quello che essa porta con sè. Ricordi di vite vissute, emozioni per momenti passati, dubbi e incertezze per speranze future.
E su tutto questo, la sua incredibile voce.

Lasciate socchiusa la porta dell'anima, affinchè il freddo vento del nord vi possa portare conforto...

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7 febbraio 2005
PRIMA NEVE

Sono cadute le prime gocce di neve sul mio mondo odierno, e sembra proprio che non vogliano posarsi a terra. Sembrano fatte d’aria e di sogni, tanto sono impalpabili, tanto sono inconsistenti. Sono quasi convinto che, se chiudo gli occhi anche solo per un istante, svaniranno in un batter di ciglia. Svaniranno come svanisce un ricordo dalla memoria di un bambino che non ha ancora compiuto il suo secondo natale. Svaniranno come svanisce la nebbia non appena ci si allontana di qualche chilometro da quella distesa immensa che è la pianura padana. Svaniranno come sono svanite le mie speranze di essere una persona diversa che non vorrei essere.
Quante gocce di neve saranno cadute, oggi? Cento, mille, diecimila, forse più. Impossibile contarle, come anche ricordarle una per una. Cosa le distingue, in fondo? Loro sanno di essere diverse, tutte differenti l’una dall’altra, e anche noi lo sappiamo. Ma questo cambia veramente le cose? Sembrano comunque tutte uguali, una folla omogenea di gocce di neve che cade dal cielo ed il cui unico destino è sempre e solo quello di adagiarsi per terra e morire. Sogneranno, le gocce di neve? Spero di si. Perchè, non so perché, ma se penso a quanto possa essere breve la loro vita e a quanto sia inesorabile la loro sorte, non posso non credere che non possano anche sognare, fosse solo per un istante. La vita dell’umanità sarebbe ben misera, senza sogni. E anche la nostra vita, dopotutto, è breve e dal destino inesorabile. Dunque, se noi sogniamo, perché non dovrebbero sognare anche loro, povere gocce di neve? Cosa ci fa pensare di essere migliori di loro? Niente. Assolutamente niente.

Buonanotte, gocce di neve
che portate con voi i sogni infranti
di una nuvola dispersa,
buonanotte a tutte voi, gocce di neve
che cadete dal cielo
e volteggiate serene
sugli animi turbati
di menti più oscure di quella nuvola lontana
da cui siete cadute.

Lasciate che il sonno vi accompagni
nel vostro breve e lungo tragitto
verso terra, verso casa,
perché non avrete una possibilità
di tornare indietro
e rimediare ai vostri errori,
non vi è stata concessa una simile fortuna
ma voi non ne soffrite
è la vostra natura
è il vostro destino
è la vostra delizia.

Cadete, lontane e vicine,
e raccontate con parole mai pronunziate
che il tempo per voi è giunto
e non vi sarà ritorno
non vi sarà perdono
una volta giunte a destinazione.

Vi ammiro, gocce di neve,
ma vorrei avere la vostra forza
per riuscire ad andare avanti
senza recriminare continuamente
su errori commessi in passato,
vi ammiro veramente, gocce di neve,
vorrei avere la vostra forza
per resistere al vento
e non lasciarmi condurre
dove non sia il mio destino
e dove non sia il mio cuore.

Buonanotte, gocce di neve,
fate sogni d’oro anche per me
che vi guardo da quaggiù
mentre spiccate l’ultimo volo
verso l’oblio
che per voi significa pace
e riposo infinito
ma per me
significa ancora dolore
e sofferenza
e dolore
e infinite mancanze
e dolore.

Buonanotte, gocce di neve,
ci rivedremo domani mattina
quando tutto il mondo si sarà svegliato
dal suo tenuo torpore
e si rimboccherà le maniche
sperando di raggiungere quel fine
a cui è vanamente votato.

Buonanotte, gocce di neve,
siete diventate adesso dei fiocchi
per me
e vi voglio ricordare così
fintanto che la memoria non svanisca
come tutti i sogni al mattino
quando la ragione rivuole il comando
di questo corpo troppo spesso
comandato dalla mente e dal raziocinio
e troppo poco dal suo tenero
e piccolo cuore.

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6 febbraio 2005
IL COLORE

Di che colore potrà mai essere il cielo, quando finalmente cadrà l’apocalisse prossimo venturo? A volte me lo chiedo, e a volte riesco anche a darmi una risposta.
Nero, come l’anima di tutti i peccatori del mondo. Nero, come il fumo che sale da un incendio doloso in un bosco indifeso, lasciato a marcire nella sua solitudine fino al giorno in cui arriverà il piromane di turno. Nero, come l’occhio di un bambino che ha appena scoperto che la forza di gravità esiste ed è più potente delle sue tenere e inesperte gambe.
Viola, come un fiore che vorrebbe essere ricordato da tutti coloro che lo colgono, senza sapere che in realtà è lui stesso a raccogliere a se tutti quegli spiriti che lo strappano dal suolo. È il prezzo da pagare per l’immortalità, in fondo. Non è tanto. Basta farci l’abitudine, e anche soltanto l’idea di essere strappati dal suolo dal primo che passa non diventa poi tanto male. Per una volta, forse. Ma si perde la speranza di mettere radici in un qualunque posto, e questo ha sempre le sue conseguenze. Sempre.
Rosso, come il sangue di un soldato che non tornerà mai a casa, ucciso sul campo di battaglia da un altro soldato che aveva più paura di lui, ma meno dubbi nel momento di premere il grilletto. Rosso, come il colore di un cuscino nella camera di un ammalato, un colore che rafforza lo spirito ed innalza la paura dell’essere.
Verde, come il cognome di un ragazzo che faceva il liceo con me, e che fu bocciato all’esame di guida per aver quasi ucciso un ciclista indifeso. Verde, come l’infinita distesa di prati che accompagnano i sogni di ogni guerriero che si rispetti, promessa di un paradiso perduto che tutti anelano di poter raggiungere, prima o poi, se si comporteranno da valorosi.
Bianco, come il manto di una pecorella smarrita, da tutti cercata ma mai da nessuno veramente capita, lei che in fondo non è altro che uno strumento di piacere o comunque un piccolo pezzo nel puzzle quotidiano della catena alimentare. Bela, piccola pecora, bela. Piangi forte il tuo dolore, fatti sentire dal mondo. Quello che non sai è che i tuoi lamenti non usciranno da quelle quattro pareti di legno che sono tutta la tua vita, e che a niente ti sarà mai servito belare. Ma questo non ti è dato sapere. Tu sei solo una marionetta convinta che i fili che ti legano al tuo demiurgo siano uno strumento di fiducia nei suoi confronti. E allora che senso avrebbe, ribellarsi?
Grigio, come l’umore di un vecchio canuto che si appresta ad uscire di casa per andare in riva al mare, in una dolce e calda mattinata d’estate. Vedrà alcuni amici, e verrà chiamato “vecchio” da alcuni ragazzi che lo incroceranno casualmente per strada. Anche questo fa parte del destino. Quando era giovane lui, c’era maggiore rispetto per le persone anziane. Ma questo non gli aveva mai impedito, a lui, di chiamare “vecchi” le persone anziane che incontrava sul suo cammino.
Blu, come quella linea indistinta dove il cielo ed il mare si fondono, per creare un’unica distesa di colori che la natura ci ha regalato in sei giorni di duro lavoro. Il settimo riposo, per tutti.
Di quale tra tutti questi colori, ed infiniti altri, sarà il cielo quando finalmente cadrà l’apocalisse prossimo venturo. Più ci penso e meno penso di riuscire a trovare la risposta. Più ci penso e meno penso che ci dovrei pensare. Perché così facendo riesco soltanto a distogliere la mia attenzione da tutto quello che varrebbe veramente la pena osservare.
Il nero del fumo degli incendi dolosi, il viola di un fiore appena sbocciato, il rosso del mio stesso sangue, il verde di un piccolo stelo d’erba appena strappato dal suolo, il bianco di un gomitolo di lana, il grigio della mia coscienza, il blu del mare. Tutti questi colori non sono altro che un ricordo che ci è stato lasciato dalla natura per ricordarci che esiste, che esistiamo, che morirà, e che moriremo. Che senso può avere, passare la vita alla ricerca di un color “ocra pallido” tendente al “terra di siena bruciata”? Non abbiamo forse mille altri colori a cui attingere per poter raggiungere la completezza di noi stessi, e la serenità con gli altri?
Si. E no. Perché l’assenza di quell’unico colore è proprio quello che ci fa star male. È quello che ci spinge ad andare avanti. È quello che ci fa migliorare. È per raggiungere quel colore, che noi viviamo la nostra vita. Raggiungiamo in tutto il nostro cammino infinite sfumature di quella stessa tonalità, ma mai quella giusta. Mai quella corretta. E allora continuiamo a cercare.
Quando lo troveremo, ce ne accorgeremo. Lo guarderemo negli occhi, e sapremo che è proprio lui, il colore della nostra vita che continuava a sfuggirci. È proprio lui, il colore della nostra infanzia perduta e dimenticata, il colore di tutte le lacrime che abbiamo versato giorno dopo giorno da quando siamo venuti al mondo, il colore dei dolori reumatici che se non sono ancora arrivati sappiamo benissimo che prima o poi arriveranno. È proprio lui.
E finalmente avremo scoperto di che colore sarà il cielo, quando cadrà l’apocalisse prossimo venturo. Ma non ci importerà più niente, saperlo. E non ci importerà più niente neanche l’averlo cercato di sapere. Questo perché oramai avremo trovato il nostro colore, e niente più avrà importanza.
Nero, viola, rosso, verde, bianco, grigio, blu. Dilettanti. Il mio colore è ben diverso. Lo so. E prima o poi, ne sono sicuro, lo troverò.
A presto, apocalisse.

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5 febbraio 2005
SONO

Sono un chiodo appeso al muro
fermo, immobile e freddo
la cui unica funzione
è sorreggere qualcosa che neanche
conosco.

Sono un riflesso sullo specchio della vita
trasparente, luminoso e fugace
cui nessuno fa caso
nel cammino che conduce
all’assoluzione eterna.

Sono una lacrima di un salice felice
paradosso nella natura mendace
che non mentirà mai
se non ai figli bastardi
di un odio minore.

Sono un frammento di porcellana
sporco, vecchio e dimenticato
relegato in una nera soffitta
dove si ammassa tutto quello
che non si vuole accettare.

Sono un suono portato dalle onde
placide, marmoree e calde
che non consolerà col suo tremito
il pianto di un’anima
per le illusioni perdute.

Sono tutto questo
e molto di meno
sono tutto questo
e poco di più
ma tu che ci credi
in un domani migliore
ricorda di cercare
tra tutti gli steli d’erba secca
il mio nome più vero
perché non lo troverai
sulla montagna più alta del mondo
ma nello sguardo morente
di un bambino suicida.

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