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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
6 Febbraio 2005
IL COLORE

Di che colore potrà mai essere il cielo, quando finalmente cadrà l’apocalisse prossimo venturo? A volte me lo chiedo, e a volte riesco anche a darmi una risposta.
Nero, come l’anima di tutti i peccatori del mondo. Nero, come il fumo che sale da un incendio doloso in un bosco indifeso, lasciato a marcire nella sua solitudine fino al giorno in cui arriverà il piromane di turno. Nero, come l’occhio di un bambino che ha appena scoperto che la forza di gravità esiste ed è più potente delle sue tenere e inesperte gambe.
Viola, come un fiore che vorrebbe essere ricordato da tutti coloro che lo colgono, senza sapere che in realtà è lui stesso a raccogliere a se tutti quegli spiriti che lo strappano dal suolo. È il prezzo da pagare per l’immortalità, in fondo. Non è tanto. Basta farci l’abitudine, e anche soltanto l’idea di essere strappati dal suolo dal primo che passa non diventa poi tanto male. Per una volta, forse. Ma si perde la speranza di mettere radici in un qualunque posto, e questo ha sempre le sue conseguenze. Sempre.
Rosso, come il sangue di un soldato che non tornerà mai a casa, ucciso sul campo di battaglia da un altro soldato che aveva più paura di lui, ma meno dubbi nel momento di premere il grilletto. Rosso, come il colore di un cuscino nella camera di un ammalato, un colore che rafforza lo spirito ed innalza la paura dell’essere.
Verde, come il cognome di un ragazzo che faceva il liceo con me, e che fu bocciato all’esame di guida per aver quasi ucciso un ciclista indifeso. Verde, come l’infinita distesa di prati che accompagnano i sogni di ogni guerriero che si rispetti, promessa di un paradiso perduto che tutti anelano di poter raggiungere, prima o poi, se si comporteranno da valorosi.
Bianco, come il manto di una pecorella smarrita, da tutti cercata ma mai da nessuno veramente capita, lei che in fondo non è altro che uno strumento di piacere o comunque un piccolo pezzo nel puzzle quotidiano della catena alimentare. Bela, piccola pecora, bela. Piangi forte il tuo dolore, fatti sentire dal mondo. Quello che non sai è che i tuoi lamenti non usciranno da quelle quattro pareti di legno che sono tutta la tua vita, e che a niente ti sarà mai servito belare. Ma questo non ti è dato sapere. Tu sei solo una marionetta convinta che i fili che ti legano al tuo demiurgo siano uno strumento di fiducia nei suoi confronti. E allora che senso avrebbe, ribellarsi?
Grigio, come l’umore di un vecchio canuto che si appresta ad uscire di casa per andare in riva al mare, in una dolce e calda mattinata d’estate. Vedrà alcuni amici, e verrà chiamato “vecchio” da alcuni ragazzi che lo incroceranno casualmente per strada. Anche questo fa parte del destino. Quando era giovane lui, c’era maggiore rispetto per le persone anziane. Ma questo non gli aveva mai impedito, a lui, di chiamare “vecchi” le persone anziane che incontrava sul suo cammino.
Blu, come quella linea indistinta dove il cielo ed il mare si fondono, per creare un’unica distesa di colori che la natura ci ha regalato in sei giorni di duro lavoro. Il settimo riposo, per tutti.
Di quale tra tutti questi colori, ed infiniti altri, sarà il cielo quando finalmente cadrà l’apocalisse prossimo venturo. Più ci penso e meno penso di riuscire a trovare la risposta. Più ci penso e meno penso che ci dovrei pensare. Perché così facendo riesco soltanto a distogliere la mia attenzione da tutto quello che varrebbe veramente la pena osservare.
Il nero del fumo degli incendi dolosi, il viola di un fiore appena sbocciato, il rosso del mio stesso sangue, il verde di un piccolo stelo d’erba appena strappato dal suolo, il bianco di un gomitolo di lana, il grigio della mia coscienza, il blu del mare. Tutti questi colori non sono altro che un ricordo che ci è stato lasciato dalla natura per ricordarci che esiste, che esistiamo, che morirà, e che moriremo. Che senso può avere, passare la vita alla ricerca di un color “ocra pallido” tendente al “terra di siena bruciata”? Non abbiamo forse mille altri colori a cui attingere per poter raggiungere la completezza di noi stessi, e la serenità con gli altri?
Si. E no. Perché l’assenza di quell’unico colore è proprio quello che ci fa star male. È quello che ci spinge ad andare avanti. È quello che ci fa migliorare. È per raggiungere quel colore, che noi viviamo la nostra vita. Raggiungiamo in tutto il nostro cammino infinite sfumature di quella stessa tonalità, ma mai quella giusta. Mai quella corretta. E allora continuiamo a cercare.
Quando lo troveremo, ce ne accorgeremo. Lo guarderemo negli occhi, e sapremo che è proprio lui, il colore della nostra vita che continuava a sfuggirci. È proprio lui, il colore della nostra infanzia perduta e dimenticata, il colore di tutte le lacrime che abbiamo versato giorno dopo giorno da quando siamo venuti al mondo, il colore dei dolori reumatici che se non sono ancora arrivati sappiamo benissimo che prima o poi arriveranno. È proprio lui.
E finalmente avremo scoperto di che colore sarà il cielo, quando cadrà l’apocalisse prossimo venturo. Ma non ci importerà più niente, saperlo. E non ci importerà più niente neanche l’averlo cercato di sapere. Questo perché oramai avremo trovato il nostro colore, e niente più avrà importanza.
Nero, viola, rosso, verde, bianco, grigio, blu. Dilettanti. Il mio colore è ben diverso. Lo so. E prima o poi, ne sono sicuro, lo troverò.
A presto, apocalisse.

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