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Settembre 2010
25 settembre 2010
THERION - SITRA AHRA
Ecco cosa succede ad aspettare con ansia l'uscita di un disco: quando finalmente quel lucente cilindro alto circa un millimetro entra nel lettore, si inizia ad analizzare ogni singola nota che ne fuoriesca, e ci si scontra con le proprie paure e le aspettative. Le ansie e i desideri. La fantasia e la realtà. Devo ammettere quanto non fossi rimasto particolarmente soddisfatto dai precedenti lavori dei Therion: "Lemuria" e "Sirius B" [2004] mi avevano lasciato abbastanza indifferente, e anche "Gothic Kabbalah" [2007] non mi aveva soddisfatto fino in fondo; "The Miskolc Experience" [2009] invece era stato un disco gradevole, in cui il gruppo svedese aveva ribadito per l'ennesima volta il proprio amore verso i compositori classici, reinterpretando opere di Dvorak, Verdi, Mozart e Wagner. Posso quindi dire che li aspettavo al varco.
"Sitra Ahra" è esattamente quello che i Therion sanno fare meglio: una composizione culinaria con ingredienti misti presi da un Carl Orff d'annata e mescolati sapientemente con melodie degne del miglior power da spadoni smeraldoni lampeggianti e fumeggianti. Escono quindi fuori dal cilindro questi cori femminili e maschili che si vanno a intrecciare con parti di batterie triggherate, e queste chitarre sempre melodiche ed epicamente trainanti, con stacchi acustici sparsi qua e là per confondere ulteriormente la sensazione finale. Mi viene da pensare che i Therion stiano al Metal esattamente come Roland Emmerich stia al Cinema: là dove c'è un film caciarone e con effetti speciali spettacolari che distolgano l'attenzione dello spettatore dallo spessore della trama e dei personaggi, qui ci sono sfumature e arrangiamenti pomposi che trascinano l'ascoltatore in una terra di magia e incanto, ma che sotto la patina appariscente dell'immediatezza alla fine lasciano assai poco. I Therion hanno sempre saputo inserire parti orchestrali nelle proprie opere, e anche questa volta non sono stati da meno: basti pensare che nel booklet allegato al disco in questione c'è l'elenco completo di tutti i musicisti che abbiano suonato nell'album, e che questi occupino un'intera pagina. Incastrare strumenti classici a quelli più tradizionalmente metal è sempre stata una mossa vincente, come hanno dimostrato anche i Rage in "XIII" [1998] e gli Haggard in "Awaking the centuries" [2001]; ma dove questi ultimi sono riusciti a ottenere e mantenere una parvenza di serietà e coesione maggiore, i Therion riescono a defecare fuori dalla latrina rendendo il risultato finale talmente pacchiano, ampolloso ed altisonante che rischia quasi di rovinare l'intero quadro.
In più, alcune canzoni raggiungono il limite del ridicolo vero e proprio: basti pensare a "Land of Canaan", la vera e propria suite del disco [supera i dieci minuti]. A parte che, essendo i Therion svedesi, avrei preferito continuassero ad occuparsi di tematiche più nordiche come avevano fatto nell'intero album "Secret of the runes" [2001], o a dedicarsi esclusivamente a contenuti più esoterici [argomento al quale il leader Christofer Johansson è sempre stato particolarmente legato]; inserire però, in una suite il cui titolo fa immediatamente pensare a deserti palestinesi, stacchi di armonica a bocca e parti di piffero, seguiti da intermezzi di fisarmonica, passando per mandole pizzicate che richiamano quasi a tradizioni di tarante e sagre meridionali, solo per finire in un crescendo vivaldeggiante, ecco: è esattamente la dimostrazione del concetto già espresso precedentemente. Qui si caga fuori dal bulacco. E senza nemmeno cercare di pulire, una volta finito. La canzone "2012" poi non fa altro che confermare al mio subconscio il paragone con l'Emmerich di qui sopra. E se poi aggiungiamo che questi vecchi metallari si sono vestiti come damerini emo attempati [siano maledetti i My Chemical Romance per questo] nelle foto che arricchiscono il packaging, il quadro è finalmente completo. Una sensazione di disgusto mentre sento voci power che cercano invano e stentoreamente di raggiungere una nota sempre più alta [ed è cosa nota che i cantanti di metallo del potere abbiano le proprie unità di misura per fare a gara a chi ce l'abbia più lungo], sempre intramezzate da cori da Carmina Burana che fanno capolino ad ogni angolo. Angosciante.
Detto tutto questo, devo infine confessare una cosa: il disco in questione immagino resterà per qualche settimana a rotazione continua nella mia autoradio: l'ignoranza pura e genuina che ne fuoriesce ha il potere di riuscire comunque a mettermi di buonumore, ed è un ottima compagna di viaggio per le trasferte settimanali che mi spettano per lavoro. Passato l'entusiasmo iniziale, però, credo che sia un album destinato a finire nel limbo delle dabbenaggini musicali senz'anima. Con buona pace di quel "Theli" [1997] che ancora mi porto nel cuore, da più di dieci anni.
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23 settembre 2010
E UN'ALTRA COSA...
Eoin Colfer, lei non fa ridere. La smetta, per favore.
Ok.
Iniziamo con calma.
Non vi dico il mancato infarto nell'entrare in una libreria e trovare un nuovo libro che fa riferimento alla Guida Galattica per gli Autostoppisti: stavo per crollare al suolo, letteralmente. Le ginocchia hanno avuto quei dieci secondi pieni di puro cedimento, leggendo la scritta "sesta parte della trilogia" di Douglas Adams. Ma non era morto? Mi assalì la speranza che fosse riuscito a lasciare qualche ultimo scritto. Nel 2002 era già uscito "Il salmone del dubbio", un libro-raccolta degli ultimi scritti di Adams, e non volevo proprio credere ai miei occhi. Ed è stato allora, solo allora, che ho guardato con attenzione l'intera copertina.
Ah.
Il libro non è di Douglas Adams, ma di Eoin Colfer. Che a quanto pare, oltre a continuare a scrivere libri per bambini di cui la saga di Artemis Fowl, ha trovato fosse cosa buona e giusta il continuare la storia della Guida Galattica esattamente là dove era stata lasciata, con gli stessi personaggi e le stesse ambientazioni. Ahimè, quello che ne esce è uno scimmiottamento dello stile di scrivere di Adams, e là dove le divagazioni della saga originale raggiungevano picchi di ineguagliata sagacia, qui si sfiora il ridicolo ed il patetico in più di un'occasione. Pochi avrebbero potuto approcciarsi ad un'impresa del genere [mi vengono in mente solo Terry Pratchett o Neil Gaiman, tra tutti] ma non c'è stato nessuno l'abbia fatto. Ci sarà anche un valido motivo, no? Questo, Eoin Colfer non sembra averlo capito. Okay, il libro non è una merda totale: quando l'autore lascia un po' le classiche ambientazioni galattiche e prova a metterci del suo, con tanto di pantheon divini a confronto, qualcosa di carino riesce anche ad uscir fuori dal cilindro. Ed è in questi momenti che vediamo uno Cthulhu a disagio seduto ad un colloquio per essere assunto come divinità di un nuovo mondo. Ma sono momenti passeggeri, il resto è tutto un cercare di riproporre con troppa Adams-referenzialità tutta una serie di situazioni di cui non sentivamo proprio la mancanza, o perlomeno non ne sentivamo questa mancanza.
Che altro potrei aggiungere? Terminato il libro sono corso a riprendere in mano il volume con tutta la saga della Guida Galattica, rilegata in copertina rigida, che uscì sempre con Mondadori qualche anno fa. Un'edizione oramai esaurita, ma che ancora ogni tanto mi trovo a cercare nelle bancarelle per poterla regalare a persone capaci di apprezzare. Accarezzo la copertina, e aprendola vedo quell'autografo di Leo Ortolani. Ricordo ancora quell'incontro, in cui l'autore di Rat-Man si tastò scaramanticamente quando gli confessai che "c'erano due autori in grado di farmi ridere anche nei momenti più bui; e uno era morto da poco". Ma questa è un'altra storia...
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