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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
Dicembre 2007

12 dicembre 2007
LA MERCA

I libri sono come le persone. Sono esattamente come gli individui. Alcuni riesci ad indentificarli e catalogarli chiaramente fin dal primo sguardo. Da come sono vestiti, da come gesticolano, da come si muovono. Alcuni di questi sono calmi, pacati, quasi repressi, altri sono furenti, furiosi, agitati e iperattivi. Alcuni sono belli, altri brutti. Vi sono quelli che affascinano, e quelli che trasmettono ribrezzo dopo meno di cinque minuti. Qualcuno ti tiene compagnia per qualche settimana ma poi finisce in un buio scantinato della nostra memoria, e altri invece rimarranno per sempre nel nostro cuore, come vecchi amici d'infanzia, destinati ad essere qualcosa di più di semplici individui comuni. Lo stesso vale per i libri, che ancora di più si prestano ad essere conosciuti, vissuti, catalogati ed infine schiarati in file immaginarie di librerie mentali. Ma a volte, magicamente, si incontra lo sconosciuto. L'ignoto. Il nuovo.
A volte capita tra le nostre mani un libro che non ci aspettavamo, un libro che forse non era destinato a noi, un libro il cui fato s'è incrociato al nostro, solo grazie al caos primordiale che comanda i fili delle nostre menti intorpidite dalle abitudini quotidiane. Un libro tanto affascinante quanto difficile. Un libro che non è possibile canonizzare all'interno dell'esperienza vissuta, e quindi riesce ad aprire la mente a nuovi pensieri, a nuove emozioni. A nuove realtà. Un libro da scoprire. Un libro da amare. Un libro da vivere. Incondizionatamente.

Non lasciatevi ingannare dalle dimensioni de La Merca, perchè dentro quelle piccole pagine c'è molto più di quello che si potrebbe pensare, e la lettura non scivola via affatto leggera e leggiadra come uno potrebbe aspettarsi. Ogni lettera al suo interno ha un ben preciso significato, ogni punto diventa verbo, ogni frase è pensiero. La sua autrice, Chiara Daino, riesce a imprimere in ciascuna pagina la gioia della scrittura e l'estetica della lettura, al punto che giunti al termine ci si rende conto di essere diventati dipendenti di una nuova forma di droga, una di quell più sottili e pericolose. Ma il viaggio mentale fino a quell'ultima pagina è un percorso che non si può cercare di narrare o confinare in una semplice e scarna recensione. Sarebbe come voler riassumere la Divina Commedia in una qualcosa tipo "Dante non muore ma va in paradiso". Inutile, e decisamente riduttivo. Sono però presuntuosamente convinto che se Chiara Daino avesse dovuto descrivere il suo libro a qualcun altro, ci sarebbe ovviamente riuscita. E forse, avrebbe fatto un qualcosa che sarebbe suonato pressapoco così.

Estetica la scrittura, estatica la lettura, invernale nel suo incedere, infernale nel suo creare dipendenza. Uno stile enigmistico e vero per una storia enigmatica e sincera, nera fin dall'inizio all'afona e sinfonica fine. Dichiarano a Chiara Daino: "chi darà a noi la crema?" La Merca le marca. Chiara, dai, no. Marcale, c'è l'amor. O carina, chi è la dama?

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3 dicembre 2007
DOTTORATO

Le diversità tra persone di varie nazionalità si vedono anzitutto dalle piccole cose. Un italiano può essere famoso all'estero per la sua sfrenata passione per il calcio, così come uno svizzero può essere riconosciuto per la sua precisione maniacale, o un giapponese per la sua inseparabile macchina fotografica. Alcune volte si rischia di sfociare nel luogo comune, ma ci sono caratteristiche che sono veramente particolari e distinguibili da paese a paese. Prendiamo ad esempio i francesi.
Qualche giorno fa sono andato a trovare un'amica che discuteva la sua tesi di dottorato vicino a Marsiglia. Io mi aspettavo una cerimonia simile a quelle italiane, a cui mi è già capitato di assistere, ed in un certo senso è stata così. Un'aula spoglia e grigia, in un centro asettico e dalle pareti grigie e monotone, con tutto intorno i soliti volti da professori annoiati e corpi di studenti che elemosinano un voto solo per apparire all'altezza dei propri compagni che invece credono veramente in quello che stanno portando avanti. Parenti ed amici in egual misura. Ed in mezzo a tutto questo, vi erano alcuni particolari che risultavano fondamentalmente differenti. Stonavano quasi, da quanto mi sembravano grotteschi. E divertenti.
Immaginate sette persone, sedute in prima fila in un'aula calda al punto da essere quasi asfissiante. Immaginate questi sette docenti, chiamati ad esaminare una ricercatrice che dovrà parlare ininterrottamente per quasi un'ora. Mettete davanti a loro cinque bottiglie d'acqua, da spartirsi secondo un algoritmo che non sono stato in grado di interpretare. La ragazza alla lavagna, invece, senza neanche una goccia di liquidi, per sciogliersi la voce. Il tempo scorreva avanti lentamente, in quell'ora, minuto dopo minuto dopo minuto, ed i sette docenti ascoltavano in silenzio tutto il discorso preparato con cura dalla ricercatrice, che gesticolava animatamente davanti ad una presentazione colma di arcane formule matematiche, animazioni, effetti speciali e sicurezza espressiva. Al termine della discussione, immaginatevi una gola asciutta. Ed è allora che sono iniziate le differenze culturali.
I sette docenti hanno preso la parola a turno e, invece di limitarsi a porre qualche semplice domanda alla ricercatrice per mettere in risalto determinate parti del suo lavoro o per criticarne altre, hanno iniziato ciascuno a parlare per una decina di minuti circa, raccontando chissà quali aneddoti sulla loro vita personale, pre-scolare o accademica, che purtroppo non sono riuscito a capire poichè non capisco praticamente nulla della lingua francese. Al termine di questi dieci lunghissimi, estenuanti e interminabili minuti cadauno, ecco che faceva capolino nel discorso una mezza domanda abbozzata, ed una risata per una battuta che sembrava capissero soltanto loro. Il tutto, mentre sorsegiavano quell'acqua che a loro non era affatto stata risparmiata. Un supplizio. Ho visto occhi chiudersi, bocche ridere a denti stretti e menti spegnersi per iniziare a vagare libere da ogni costrizione in quell'ulteriore ora che è seguita a quella presentazione già così magistrale e perfetta. Ed è stato allora che ho messo a fuoco, perfette e così palesemente semplici, le differenze tra il modo di fare italiano e quello francese, che fino ad allora mi era ignoto.
Prendete un argomento qualunque. Fate parlare un italiano. Osservatelo. Il discorso non uscirà soltanto dalle sue labbra, dai suoi occhi, ma anche dai movimenti delle sue mani, dalla gestualità delle sue braccia, da ogni movimento del suo corpo. Quello che vi starà dicendo non sarà semplicemente un susseguirsi di parole, ma anche un crescendo rossiniano di dita che si agitano consapevoli di spazi non euclidei che non possono non far parte del suo stesso discorso. E per far questo l'acqua non è affatto fondamentale. Anzi. Un francese, invece, sprovvisto di tutta quest'arte plastica, si limiterà a tenere le mani dietro la schiena e cercare di prolungare anche soltanto una semplice frase nel modo più monotono e tedioso possibile, senza riuscire a destare il benchè minimo interesse nel pubblico presente.
Un gesto. Una semplice mano volta al cielo che cerca di raccogliere un oggetto invisibile, ma perfettamente presente nella mente di chi sta parlando. E di chi sta ascoltando. Eccolo, è tutto qui il segreto della dialettica italiana. Ecco il segreto della nostra capacità comunicativa. Magari non saremo un popolo di traduttori perfetti e precisi come potrebbero essere ad esempio gli svizzeri, ma siamo un popolo di oratori nati. E ci mettiamo l'anima, nel farlo. Provate ad immaginare di essere in mezzo ad una stanza vuota. Provate ad immaginare di leggere la prossima frase ad un vostro amico, senza avere niente in mano. Come la visualizzareste?
Esattamente. Proprio così.

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