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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
Dicembre 2004

30 dicembre 2004
VETRO

Il vetro si è rotto
frantumato al suolo
e a niente sono serviti tutti i colori
dipinti al costo di una vita
passata a nascondermi
in una scatola di vetro.

Tutti i pennelli collezionati
giorno dopo giorno
sono sbiaditi con i frammenti
di quel vetro
che non si ricomporrà magicamente
domani
quando il sole sorgerà
se non su di un nuovo dolore.

Giallo e rosso
sono i colori del calore del corallo
che mi è comparso davanti agli occhi
insieme a tutti questi pezzi
di vetro infranto
di quella scatola dipinta
che era la mia vita.

Lavatevi la coscienza
e guardatemi dentro
ora che potete
se volete.

Lavatevi la coscienza
e porgetemi quella coperta
affinchè io possa nascondere ancora
quelle parti dei miei occhi
che non esistono nel presente.

Lavatevi la coscienza
e asciugatemi le lacrime amare
sgorgate dal vetro
e rivolte al nulla
di un sorriso perduto
che offre tanto di se
ma niente di me.

Lavatevi la coscienza
e lasciatemi nel silenzio
di un tavolo solitario
in un locale abbandonato
e dimenticato.

Lavatemi la coscienza
io sto raccogliendo il vetro
di quella scatola dipinta che non tornerà.

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29 dicembre 2004
TRE GIORNI PRIMA

Ho sempre percepito la venuta di Capodanno con tre giorni di anticipo. Non guardando il calendario per la prima volta il 29 dicembre. E nemmeno avvertendo una strana sensazione di gioiosa novità nell’aria. È molto più semplice. Ho 39 di febbre.
Ci sono stati anni in cui questa maledizione è sembrata venir meno. Ricordo il lontano 1997, quando riuscii ad uscire con alcuni compagni del liceo e avviarci alla volta di Genova. Sul più bello, mentre percorrevamo Corso Europa, ci siamo trovati esattamente in mezzo ad una nevicata, senza le catene a bordo. Né noi, né le macchine davanti a noi. Bloccati. E abbiamo stappato lo spumante in mezzo ad automobilisti sconosciuti.
Nel 1998, neanche a dirlo, ero nuovamente in preda del delirio della febbre, e ho salutato la venuta del nuovo anno con una maratona Star Wars, tutta mia. Dopo lo scadere dell’ultimo rintocco del terzo film, ero convinto di poter riuscire a raggiungere il letto semplicemente usando la Forza. Semplice. Mia madre mi ha trovato il mattino dopo, accasciato sul divano in sala.
Il 2001 sono riuscito a trascorrerlo in Piazza Matteotti, subito sotto Palazzo Ducale. C’erano i New Trolls che suonavano, se non ricordo male. Ero anche in dolce compagnia. Abbiamo passeggiato serenamente per i vicoli di Genova, evitando ragazzetti che ci offrivano una rosa o del fumo. Due ragazzi ci hanno offerto una rosa. Sette ci hanno offerto del fumo.
Gli anni successivi ho dato l’addio alla nostra bella città, e ho preferito dirigermi verso luoghi montani, passando il Capodanno in compagnia di amici liguri, anche loro in trasferta. Ci siamo divertiti, e stranamente non sono stato male. Ma come tutte le maledizioni che si rispettino, sono tornato al punto di partenza… oggi ho 39 di febbre.
Avevo già iniziato ad interessarmi a cosa sarebbe successo a Genova quest’anno. Avevo mia sorella che spingeva per tornare in montagna. Avevo degli amici che suonavano in piazza a Rapallo. E invece niente. Niente di tutto questo.
Niente musica per le piazze dei vicoli. Da Piazza San Giorgio a Caricamento, dalle Erbe al Ducale, da Galleria Mazzini a Largo Dodici Ottobre. Mi perderò tutti questi appntamenti. Niente megafesta al MazdaPalace. Niente Splindeparì a Rapallo. Niente visite allo Shakespeare Cafè, o al Madeleine, o ancora al Lebowsky. Niente.
L’unica cosa a cui posso aspirare, quest’anno, è un’altra maratona cinematografica, che disputerò per la seconda volta sul divano di casa mia. Un gatto che fa le fusa in grembo, un camino acceso a lato. E niente spade laser, quest’anno. Voglio essere sicuro di riuscire a raggiungere il letto…
…ma voi che non percepite il Capodanno con tre giorni di anticipo, voi che avete ancora possibilità di scegliere, sapete che cosa dovete fare. Dovete uscire per strada. Non importa quale sia, la scelta è vostra. Strada, vicolo o piazza, in fondo è lo stesso. Uscite e brindate alla fine di quest’anno della Cultura, brindate alla venuta del 2005, brindate a quello che volete. Brindate anche un po’ per me, se ne avete voglia.
Io prometto che parlerò bene di voi a Saruman il Bianco, mentre mi condurrà verso il letto.

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26 dicembre 2004
PAGINE VUOTE - DIECI FIOCCHI

Cade il primo fiocco di neve. Lo inseguo con lo sguardo, cerco di farlo mio. È quasi trasparente, metà bianco e metà del colore stesso dell’aria, e trasmette un odore come di nuvole di passaggio. Lo inseguo con la mente, e lo immagino a sorvolare montagne innevate e coperte di ghiacciai perenni, montagne dimenticate da tutti e destinate a non essere mai segnate da orme umane.
Cade il secondo fiocco di neve. È letteralmente diverso dal primo, come sono differenti il giorno dalla notte. Pare quasi che abbia voluto nascere dal vento invernale un attimo prima che il sole stesso decidesse di tramontare, e si lascia così cullare dal vento che lo porta via. Lontano. Distante dal primo fiocco di neve. Si perde nel vento, e non ha nemmeno la forza di gridare aiuto. È solo. Asseconda i capricci delle correnti aeree, e non può ribellarsi al suo nuovo padrone. È perduto.
Cade il terzo fiocco di neve. Vado con la mente ad un anno fa. Alle diversità e alle esperienze che mi hanno lasciato segni indelebili nel cuore. A quanto la vita sembri ripetersi e allo stesso tempo cambiare anno dopo anno. I sensi di colpa riaffiorano sempre, puntuali come una sveglia programmata male, e mi lascio sopraffare da tutti loro. Sono i benvenuti, in fondo. Come potrei fare, senza di loro? Sarei perduto, come il secondo fiocco di neve. Sarei un fiocco di neve uguale a tutti gli altri fiocchi di neve, mentre dentro di me so benissimo che i fiocchi di neve sono tutti differenti tra loro, che non esistono due fiocchi di neve identici. Perché, poi non lo so. O non lo ricordo, che poi è lo stesso.
Cade il quarto fiocco di neve. È bianco come una qualunque pagina vuota di un libro mai scritto. È bianco come i peccati di un bambino appena nato. È bianco come le note che salgono dal retro della mia stanza fino ad avvolgere ogni singola cellula che mi circonda, ogni tessuto che ricopre la vita di tutti i giorni. È bianco, come lo sguardo di un cieco che scopra d’improvviso che gli stanno cadendo fiocchi di neve sul volto, e si metta a sorridere. È bianco, come la felicità che non esiste, ed è allo stesso tempo la somma di tutti i colori.
Cade il quinto fiocco di neve. Apro la finestra, e lascio che l’aria fresca della sera si adagi sul mio essere, e abbandoni il non essere al calore dei ricordi. Un gatto alle mie spalle fa le fusa, con indisponenza. La volontà comincia a venire meno, e l’ispirazione muore. Aspetto un suono che arriverà tra poco, e mi risveglierà dal torpore che mi sta cullando piacevolmente. Come le fusa di un gatto. Come un fiocco di neve che cada e non lasci tracce dietro di se. Nessuno che sa dove possa essere andato, dove si sia fermato, dove e da chi verrà ricordato. Da un gatto. Da un fiore. Da un cadavere che non si rende conto di essere ancora vivo e rincorre inutilmente il passato.
Cade il sesto fiocco di neve. Una regina di un regno lontano si sveglia da un lungo torpore e chiama i suoi servitori, che accorrono trafelati. Le chiedono che cosa desideri. Sono ai suoi ordini. Come sempre. La regina ha sognato un posto sconosciuto, ed è rimasta addormentata per tre giorni e tre notti per riuscire a capire dove fosse. La regina chiede ai suoi servitori di trovare quel posto. La regina prega dentro di se che riescano a trovarlo, ma questo non le impedisce di minacciarli di mozzar loro la testa in caso di fallimento. Ma sarà tutto inutile.
Cade il settimo fiocco di neve. Ho scoperto di avere una scatola, al mio fianco. È chiusa. Ma si vede perfettamente il contenuto, dato che la scatola è trasparente. Come la mia vita. Come vorrei che fosse, la mia vita. Ma invece, molto spesso, mi scopro a tenere in mano pennelli di colori differenti, e sempre per dipingere quella scatola trasparente che è il mio spirito, e solo per impedire a chi mi sta intorno di riuscire a vedermi dentro. Di conoscermi. Di avvicinarsi a me. Di aprire quella scatola trasparente che è la mia vita. Il mio spirito. La mia, dannata, anima.
Cade l’ottavo fiocco di neve. Rido per il muro dinnanzi a me. Rido per i sussurri che sento nella mia testa. Rido per l’inconsistenza dei sensi dimenticati da dio. Rido per i giorni segnati sul calendario. Rido per i vincoli a cui cerco di sfuggire inutilmente. Rido per l’avarizia e la lussuria, la fede e la virtù. Rido di tutto questo, e ricordo immediatamente che una risata mi seppellirà. Smetto di ridere. Sono appena morto.
Cade il nono fiocco di neve. Rumori di sirene lontane, venute per portare via il mio cadavere. Il mio corpo. Il mio spirito. Le sirene arrivano, e mi portano via con loro, nel più profondo dei mari, là dove nessun pescatore riuscirà mai a raggiungerle, la dove nessun pescatore riuscirà mai a raggiungermi, la dove nessun servitore riuscirà mai a condurre la sua regina.
Cade il decimo fiocco di neve. È ora che il conto si fermi, e la vita prosegua. È ora che i fiocchi di neve si rendano conto che non sono tutti diversi se non lo vogliono veramente. È ora che tutto svanisca, e i miei ricordi con il tutto. Tutto. Bianco. Gatti che fanno le fusa a parte.

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20 dicembre 2004
PAGINE VUOTE - LIBRO

Pagine bianche
svuotate dal tempo
da tutti gli inganni
di un mondo perduto.

Pagine nere
macchiate alla sera
da un inchiostro indelebile
che svanirà domani.

Pagine piene
di illusioni mendaci
per una goccia di speranza
che tarda a cadere.

Pagine rosse
come il fuoco di paglia
che tutti abbiamo dentro
quando nasciamo.

Pagine vuote
svuotate dal tempo
macchiate alla sera
di illusioni mendaci
come il fuoco di paglia
che si è spento col vento
chiamato fantasia
da tutti i sognatori.

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19 dicembre 2004
PAGINE VUOTE - INVERNO

L’inverno è quasi arrivato.
Il freddo che entra direttamente nelle ossa, lasciandomi quasi senza fiato, assomiglia ad un senso di paralisi che sembra avvolgere l’intero spirito. Il vento mi punge il viso come un migliaio di aghi arroventati su fiamme gelate, e mi tortura come se fossi una foglia appassita destinata a disintegrarsi al primo contatto. Tutto si tinge di bianco.
Bianco, come una pagina vuota di un diario vergato a mano, destinato ad interrompersi inaspettatamente per il destino beffardo del fato. Bianco, come un fiocco di neve che cade, regalato dal cielo, e svanisce nella massa dell’infinito manto invernale. Bianco, come il sorriso di un bambino che non è ancora entrato in conflitto con le tragedie del mondo.
Le giornate sono fredde. Il vento è freddo. Il mio spirito è freddo. Lo stesso freddo, si tinge di freddo. E su tutto, nella finta sicurezza che cerco invano di raggiungere avvolgendomi nel calore di un Natale ormai alle porte, lo sgomento. La paura. La paralisi. Non per il freddo, questa volta, ma per una presenza che non tornerà. Non tornerà più.
Se ne è andato. È salito su un minuscolo fiocco di neve e si è lasciato condurre via, lontano, dal ghiacciato vento invernale. E nonostante il calendario stia cercando di assicurarmi, con i suoi giorni stampati in colori variopinti, che tutto ciò non sia vero, io so con sicurezza che le giornate sono d’un tratto diventate tutte più bianche. Più fredde. Più vuote.
Il freddo mi è entrato nelle ossa, e non mi abbandonerà allo sciogliersi delle nevi. Il freddo che si è venuto a creare, non svanirà a primavera. Il freddo è parte di me.
Stefano, ci mancherai. Tanto.
L’inverno, quest’anno, è già arrivato.

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9 dicembre 2004
PAGINE VUOTE - LOCALE

Fino a sei mesi fa ero un semplice magazzino, relegato nel centro storico di Genova. Ho visto di tutto, passare sui miei pavimenti. Partite di pesce andato a male, scatoloni di vestiario contraffatto, ignoti imballaggi di elettronica e giornali destinati al macero. La mia vita sembrava destinata a susseguirsi, giorno dopo giorno, sempre allo stesso modo, senza una speranza per il futuro imminente. Poi, inaspettatamente, grazie agli incentivi regionali destinati all’imprenditoria giovanile, sono stato rilevato da un gruppo di ragazzi e sono diventato un Locale.
Mi hanno dato un nome, mi hanno ridipinto tutto, e messo a nuovo come se fossi un vestito logoro a cui si rifanno gli orli. Ora ho un bancone all’ultimo grido di cui vado decisamente fiero, e un arredamento tutto mio.
Certo, i primi tempi sono stati duri. Ero abituato a scrutare volti di persone segnate dalla vita e senza più alcuna gioia di vivere, e tutto d’un tratto mi sono trovato circondato e calpestato da una nuova linfa vitale, dalle speranze per il futuro. I giovani. Era incredibile vedere quanti giovani circolassero il venerdì sera per quei vicoli che avevo imparato a temere. Si era aperta ai miei occhi una prospettiva del tutto nuova di quella stessa città in cui ero stato costruito tanto tempo prima, ma che non avevo mai assaporato fino in fondo. È stato allora che ho capito quale fortuna mi fosse capitata.
La vita di un locale, in fondo, non è così difficile. Ho delle stanze con tavoli semplici in cui si può passare una serata in allegra compagnia, o volendo anche in intimità. Ho una sala in cui ci si può fermare a fare due parole con il barman che lavora dietro il bancone. Il mio bancone. Ho anche un piccolo palco sul quale possono salire giovani musicanti e proporre al pubblico le loro composizioni, o anche quelle di altri. Che altro si potrebbe chiedere di più?
La concorrenza non è affatto semplice, soprattutto nei fine settimana, ma in questo giro non è mai semplice. Esistono realtà come il Fitzcarraldo o il Bulldog che, solo perchè sono in vita da più tempo, attireranno sempre una loro clientela, ma io non mi dispero. È sulla qualità e sulle nuove proposte, comunque, che si deve puntare. Genova non sarà mai Milano, magari, e forse il concetto di "aperitivo" prima di cena non prenderà troppo piede, ma ha un suo movimento sotterraneo che può vantare e di cui deve andare fiera.
È un piacere portare gioia nella vita di tante persone, di tanti giovani, e alla fine poco importa se ogni tanto dopo un bicchiere di troppo qualcuno si possa sentire male e mi sporchi i pavimenti nuovi. Anche questo, fa parte della crescita del carattere di una persona. La musica che viene suonata tra le mie vecchie mura, poi, è un vero e proprio inno alla vita che potrebbe essere stata vergata da un Giuseppe Verdi qualunque sulle pagine vuote del tempo, e donata ai posteri come riconoscimento per il solo piacere di essere ascoltata.
Birre scure e martini con olive, free jazz e hard rock, quadri alle pareti e panche di legno, sorrisi e lacrime. Tutto questo potrete trovare, se verrete a cercarmi. Vi accoglierò volentieri, e col sorriso sull’uscio. Potrete anche sporcare un poco, se lo farete con il cuore puro. Magari, e in questo riconosco la mia orgogliosa anima di genovese, vi chiederò un solo favore quale piccola cortesia: quando entrate, guardate con ammirazione il bancone. È il mio bancone.

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