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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
3 Dicembre 2003
INUTILITÀ

Ecco quello che succede.
Un serata tra amici. Qualche birra che inesorabilmente scivola via. Una viaggio in treno, per tornare a casa. Tanti pensieri per la testa.
Arrivato in stazione, due figuri che giocano a tirare le monetine più vicino ad un pilone. Uno vince, l’altro perde. Un euro a tiro. Il pareggio alla fine del gioco. Ed il pensiero che, alla fine, non ci siano vincitori o vinti in qualunque gioco la vita ci proponga. Come sempre, dopotutto.
Trovarsi a pensare, come mi è successo oggi, a come ci si relazioni con la altre persone, chiunque esse siano. Amici, amanti, perfetti sconosciuti. Persone. Sconosciuti che d’un tratto diventano perfetti conoscenti, solo per un attimo nella tua vita. Cosa significano i rapporti tra le persone? Cosa sono le relazioni sociali? Quanto di te vedono gli altri, e quanto tu fai vedere di te? Quanto e cosa gli altri vedono, e di conseguenza come si comportano di conseguenza?
Datemi un misero appoggio e, come già disse qualcuno ben prima di me, vi solleverò il mondo. Non quello che tutti vedono o si illudono di vedere, ma quello che io vedo realmente come tale. Quello che io credo che sia la realtà di tutti i giorni e che affronto quotidianamente. Chi sono io per dire che cosa sia giusto o sbagliato?
Nessuno.
Non oso criticare o giudicare nessuno, ma nonostante questo mi ritrovo sempre nella condizione di dover consigliare questo o quello, a dover dare giudizi su cosa secondo me sia giusto o sbagliato. Per chi, poi, lo devo ancora capire.
Avere l’approvazione su quello che penso, su quello che provo, alla fine può far star meglio. Ma a quale pro? Alla fine sono sempre io quello che deve venire a patti con la mia coscienza, con la mie idee, con i miei limiti e i miei più intimi e reconditi pensieri. Cosa può sapere una terza persona di quello che sono io veramente?
Niente.
Io sono quello che do a vedere, e non quello che mi sento veramente di essere. Io sono quello che vedono gli altri, e non quello che io vedo di me stesso. Io sono nient’altro che un nulla tra le impressioni fugaci di una nullità che il vento invernale spazzerà via in una serata indistinta e che verrà dimenticata da domani in poi.
Datemi un mazzo di rose, e le chiamerò per nome una ad una. Datemi un nome e mi ricorderò per l’eternità che non sono io. Datemi una mano e vi porgerò tutto quello che non avreste mai voluto. Per cosa poi?
Assolutamente niente.
Fa caldo in questa carrozza vuota. Vuota come mi sento io adesso. Solo con me stesso, con le mie idee, con il mio essere me stesso che nessuno potrà mai capire fino in fondo, se non glielo permetterò io stesso. E allora, di che cosa mi posso mai lamentare? Chi sono io per piangermi addosso con tutte queste premesse?
Proprio nessuno.
E allora non mi resta altro da fare che innalzare al cielo il mio calice di insoddisfazione e brindare con voi della mia inutile libertà, della mia raggiunta pace dei sensi, della mia inutilità nei confronti della vita che mi scorre davanti agli occhi giorno dopo giorno, ora dopo ora, istante dopo istante.
Raggiungetemi in questo mio nulla, e ci troveremo insieme a brindare ad un nulla che non esiste se non nelle nostre più nascoste immaginazioni, sperando che il mondo cambi e ci porti via con sè nel domani che non ha certezze se non quelle che ci costruiamo noi.
Inseguiamo le nostre stelle guida che ci illuminano la strada da lassù, non sapendo che noi, quaggiù, soffriamo come cani per qualcosa che magari non vale nemmeno la pena di soffrire, sperando in qualcosa per cui magari non vale nemmeno la pena di sperare.
Cambiare? E come si fa? E per chi, poi?
Dio. La luce. Quello.
Il sonno oramai cerca di farsi strada per il mio cervello, e forse alla fine ci sta anche riuscendo. Ma non mi farò cogliere impreparato. Da lui. Dalla vita. Da tutto il resto. O perlomeno mi sento di poterlo affermare. Quanti, in fondo, possono farlo? Quanti possono sentirsi sicuri di scrivere quello che sto facendo io in questo momento? Starò peccando di superbia, con queste mie affermazioni, me ne rendo conto, ma in un certo senso mi sento privilegiato. Perchè, nel mio piccolo, mi rendo conto di tutti i miei limiti, di quello che penso di poter raggiungere e di quello che penso che non raggiungerò mai. Quanti possono fare altrettanto?
Non lo so.
E allora, al termine di questa serata, non posso fare altro che ringraziare me stesso per quello che sono e non sarò mai, per quello che non sono e vorrei essere, per quello che sarò e non vorrei mai essere stato.
Pregate per me, e io pregherò per voi. Voi siete la mia stella che illumina il mio cammino. Lasciate che io sia la vostra, e andremo perfettamente d’accordo.
A domani, compagni di sventura.
A domani, amici di lettura.
A domani, stelle del cielo che brillano su di me e mi illuminano la strada buia che devo percorrere. Non vi ringrazierò mai abbastanza.

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