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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
6 Novembre 2005
VISIONI

Sono morto alle tre del mattino del 29 ottobre 2005.
Sono morto, schiacciato dentro una vettura lanciata in autostrada a 130 chilometri all’ora, spinta da un camion verso il suo fatale e ineluttabile destino. Sono morto, e ho lasciato dietro di me soltanto sogni infranti e speranze sospese. Sono morto, e allo stesso tempo sono risorto dalle mie stesse ceneri, come la peggiore araba fenice che si ricordi nella storia di tutti i tempi.
Da allora, vivo questa non-vita assillato da pensieri che non sono nemmeno miei. Mi alzo la mattina e guardo il soffitto bianco pensando a quanto sia bianco. Pranzo e mi ritrovo a fissare un cucchiaio pensando che forse non ne avrei più dovuto vedere nemmeno uno. Guardo bollire l’acqua della pasta e mi ritorna in mente il ricordo del mio primo bagno in una vasca colma di acqua calda. Vado in bagno e mi soffermo a guardare tutte quelle mattonelle blu, accorgendomi per la prima volta che recano delle macchie che tanto mi ricordano dei tapiri. Racconto estemporanei episodi di aquiloni sperduti e dimenticati nella mia stessa camera dei ricordi, come per saggiare che tutto sia ancora al proprio posto, laggiù, in quelle tenebre che conservano tutti i miei pensieri. Non riesco più a bere una birra in allegria e a ridere per qualcosa che non sia la mia stessa patetica condizione. Leggo parole e nello stesso tempo ne creo altre nella mia mente. Urlo, bestemmio, grido, piango, ma tutto in silenzio, tutto sotto quella superficie di onesta tranquillità che non oso squarciare per paura che ne possano uscire demoni che sto cercando di trattenere nascosti, celati, invisibili agli occhi di tutti così come non vorrei che lo fossero ai miei. Mi chiedo se non stia ancora sognando di essere vivo, e tutto quello che vedo, tutto quello che faccio, tutto quello che sento e che non sento non siano altro che i miei sogni di anima dannata e perduta sul ciglio di una strada asfaltata e percorsa giorno e notte da chissà quante anime dannate e perdute.
Dicono che, in punto di morte, ti passi davanti agli occhi tutta la tua vita passata, i momenti più importanti che hanno scandito la tua esistenza. Non so se sia vero. Quello che posso aggiungere, con la mia piccola ed insignificante presa di posizione, è che sono più di sette giorni oramai che mi vedo passare davanti agli occhi la mia vita, e quello che passa non sempre mi soddisfa in pieno. Rivedo errori che avevo dimenticato e che quindi non mi hanno insegnato niente. Rivedo volti che avevo scordato e che mi sarebbe piaciuto ricordare non dico per sempre, ma almeno per un po’. Rivedo episodi della mia vita che mi hanno forgiato il carattere, quel carattere di merda che mi ritrovo e che molto spesso mi convinco che non sia neanche troppo male, episodi che sono sempre esistiti nel più profondo di questo corpo che talvolta chiamo anima ma che non escono mai in superficie per paura di scontrarsi con la luce del sole.
Ho perso tutta la fiducia nella vita che conservavo, solo per scoprire che l’immortalità è un prezzo altissimo da pagare anche per un misero mortale che non vorrebbe altro se non la pace, la quiete, un solo sospiro di calma e poi niente più. Ho perso tutta la sicurezza che avevo accumulato e mi sono ritrovato in un lago di rimpianti e di insicurezza, mi sono ritrovato in una valle di disperazione e di ricordi, mi sono ritrovato su di una montagna di lacrime e di nostalgia, mi sono ritrovato in una cattedrale di vuoto e di vertigini.
Mi sono iniziato a domandare quale sia il mio scopo su questa terra. Perché vivo. A quale fine. Cosa devo fare. Chi devo incontrare. Perché non posso morire. Perché mi è stata data una seconda scelta. O una terza. O una quarta. Chissà. Mi sto chiedendo quale sia il significato più lontano di un banco di nuvole nel grigio cielo autunnale. Faranno piovere lacrime di gioia?
Sono morto alle tre del mattino del 29 ottobre 2005. Ma non riposo in pace. Non ancora.

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