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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
Marzo 2006

23 marzo 2006
C'È CHI DICE

Ho preso la barba da mio padre e i baffi da mia madre. O forse no. Non ricordo mai l’ordine corretto.
C’è chi dice che in un giorno bisognerebbe vivere da leoni, per non passare una vita da coglioni. Potrebbe essere anche vero. Ma volete mettere tutta la mussa che vedono due coglioni, rispetto ai leoni? Preferite vedere mussa per una vita, o correre liberi per la savana? Amletico dubbio, che riporta al quesito fondamentale sulla vita dei single. Che sono sempre convinti di stare bene così come sono, ma in realtà aspirano sempre a qualcosa di più, a qualcosa di diverso, a qualcosa di speciale.
C’è chi dice che la vita è fatta a scale, chi le scende e chi le sale, ma l’importante è chiamare l’ascensore. Vero. O magari, dall’ascensore si perde tutto il panorama che si può vedere dalle scale di quel palazzo infinito che è la vita, e non si incontrerà mai quell’inquilina del piano di sotto che esce di casa, e che sull’uscio ci sussurra pensieri ardenti come le parole di un bambino sordomuto, e così cariche d’amore da soffocare la volontà dell’intero universo tangente.
C’è chi dice che chi tace acconsente. Ma dicendolo, automaticamente stanno negando. Questo magico paradosso dell’epoca odierna riporta alla mente di chi è in grado di ascoltare che non c’è niente che valga la pena di essere vissuto come una carezza di una farfalla, nel bosco di quelle emozioni che sbocciano nel traffico della monotona e prevedibile vita di un moscerino cieco.
C’è chi dice che domani è un altro giorno. Penso siano gli stessi che preferiscono i leoni alla mussa, e questo è dire tutto. Poesia, prosa, parole in libertà. Cosa distingue quattro tracce di blu nel bianco di un foglio bianco, da una pallida scultura di carne, emozioni e follia vergata da un carnefice impazzito? L’inizio di tutto quello che è già passato e non tornerà, la fine di quello che non è finito ed è destinato a risorgere, come la schiuma in riva al mare nel prossimo divenire.
C’è chi rincorre i propri sogni e ha perso fiducia in se stesso e nel suo domani. Io brindo a lui, perché ha raggiunto un livello di consapevolezza di sé che ancora mi manca. Brindo a lui, e mi ricordo di essere vivo. Brindo a lui, e mi ricordo che sto vivendo un giorno di scale nel silenzio del domani. Sono ancora qui. Svegliatemi.
Ho ancora la barba di mio padre e i baffi di mia madre?

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19 marzo 2006
FOGLIA

Cosa resta di una foglia quando si stacca dall’albero?
Un suono, un ricordo, un leggero battito d’ali nella stessa aria trasportata dal vento. Un suono per tutte le mani che si sono allungate per cercare di coglierla, per violentarla, per strapparla dalla sua natura, per demotivarla. Un ricordo per ogni volto le abbia ridato vita donando acqua alle radici del suo ramo, del suo albero, della sua vita. Un leggero battito d’ali per tutti i secondi che la separano dal suono, per il tempo che le resta da vivere, per la consapevolezza che sta sfumando via ad ogni centimetro che la allontana dalla sua famiglia.
Cosa resta di una foglia quando atterra al suolo?
Un sussurro, un battito, un timido colore sul grigio suolo autunnale. Un sussurro per catturare l’attenzione di una donna lì vicino, e farsi guardare con amore per un’ultima volta. Un battito nel petto per ricordarsi di essere stata viva, per ricordarsi di quando non era avvizzita, per non dimenticare il suo nome entro la fine del giorno. Un timido colore per essere distinta da tutte le sue sorelle, cadute prima di lei e destinate ad aprirle il varco nel buio cammino che la separa dall’oblio, quando tutto il mondo andrà in fiamme e non ci saranno mari a contenere l’esplodere dell’inferno sulla terra.
Cosa resta di una foglia quando brucia nel tempo?
Un bacio, una lettera, una velata carezza sul collo della sera. Un bacio per tutti i sogni che non è riuscita a realizzare, prima di separarsi dalla vita. Una lettera di commiato per accompagnare quell’ultimo bacio, destinato a chi avrà l’onore di cogliere il suo ultimo sguardo, e la vedrà perire sul suolo annerito dal tempo. Una velata carezza per sussurrare quella verità che tutti sanno e nessuno ha il coraggio di accettare.
Siamo tutti foglie che ci stacchiamo dal nostro albero, e veniamo trasportati via dal vento. Siamo tutti foglie destinate ad appassire, morire e bruciare nelle fiamme del tempo per un amore che non esiste se non nelle nostre menti, un amore che ci condanna a cambiare o essere cambiati, un amore che ci riduce in schiavitù quando mai siamo stati liberi. L’unico attimo di libertà, in fondo, è proprio quel viaggio che facciamo quando ci stacchiamo dall’albero. Quella caduta che ci viene concessa in punto di morte, quando finalmente abbandoniamo la nostra famiglia e ci incamminiamo verso il fato. L’unico attimo di libertà che non abbiamo nemmeno il tempo di assaporare, condannati come siamo a dimenticare tutti i suoni che ci vengono regalati dall’aria fresca.
Cosa resta di una foglia quando si stacca dall’albero?
Noi. Solo noi.

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12 marzo 2006
FIAMME

Si sono spente le fiamme dell’inferno che bruciavano sulla mia anima, si sono spente le fiamme del paradiso che scaldavano il mio immondo spirito, si sono spente e chissà quando si accenderanno nuovamente. Si sono spente e le ceneri che hanno lasciato al suolo stanno ricoprendo ogni singola orma io abbia lasciato nel mio passato. Si sono spente e i ricordi di tutte le emozioni bruciate che fanno parte del mio passato sono svaniti nel tenue pensiero intermittente che mi esplode dentro.
Volgete il vostro sguardo altrove, demoni di fuoco che esitate a poggiare lo sguardo su un sorriso radioso che meriterebbe ogni luce del cielo astrale. Volgete lo sguardo altrove, angeli rinnegati che vi illudete ancora di far parte di un sogno che non esiste più, che si è già dissolto al passaggio di una piuma di cigno. Volgete i vostri sorrisi altrove, perché non è su questa terra dannata che troverete il conforto che bramate, non è su queste pareti che appenderete i vostri trofei, non è in queste ore che si consumeranno le vostre voluttà.
Si sono spente le fiamme dell’inferno, ed al loro posto sono spuntate margherite rosse, ed al loro posto hanno cantato usignoli di pietra, ed al loro posto ho pianto lacrime di gioia, di liberazione, di noia e di ascensione. Si sono spente le fiamme dell’inferno, ed eserciti di anime hanno brindato in coro. Liberate dal dolore. Libere da tutto. Finalmente, morte.

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9 marzo 2006
LUCI

Tutte le luci si spengono, prima o poi, con la venuta della luce. Tutte le luci artificiali hanno una data di scadenza, scritta in piccolo, che presto o tardi farà sentire la sua voce e porterà l’oscurità nella vita di quella luce, avvolgendola completamente. Tutte le luci sono destinate a cedere il posto a qualcun altro, che sia una luce artificiale o il sole stesso.
Tutte le emozioni dell’uomo sono come le luci. Destinate a finire. Condannate a spegnersi. E cederanno il loro posto ad altre, diverse, migliori e peggiori, maggiori o minori, non importa. Tutte le emozioni hanno una data di scadenza che costringe l’uomo ad assaporarne ogni singolo istante, ogni distinto respiro, ogni leggera sfumatura. Fino al loro svanire. Ma al loro posto si accenderà sicuramente un’altra luce, una nuova emozione, e avanti così. Sarà valsa la pena quell’istante di tenebra tra una luce e la successiva, perché senza la notte come si fa a godere della piena luce del giorno? Senza l’oscurità, come si potrebbe cercare l’interrutore per quella luce che tanto agognamo, che tanto desideriamo, che tanto meritiamo? Siamo fatti di luci ed ombre, ma anche noi stessi siamo una luce. Destinata a spegnersi. Condannata a cedere il posto a qualcun altro.
Una luce fatta di luci, un’ombra circondata da ombre. Giorni e notti. Da sempre, per sempre. È questa, la nostra immortalità. Presi singolarmente, siamo tante luci appassite che prima o poi svaniranno. Ma messe insieme, l’una vicina all’altra, illuminiamo il mondo intero, perennemente. Dobbiamo trovare quella luce che al nostro fianco illumini quell’oscura galassia che è la nostra vita, quella luce di stella che unita alla nostra ci faccia brillare nella notte. Dobbiamo trovarla, prima che si spenga, o prima che ci si spenga noi. E succederà, fidatevi. Succede da sempre. Succederà ancora.
Siamo tutti minuscole luci.

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1 marzo 2006
MURO

È il destino di tutti noi
essere appesi al muro,
miseri trofei di una battuta di caccia
che ci ha visti perdere
per un battere di ciglia
o per un respiro di troppo.
Da lassù vedremo tutto il mondo
con un distacco che mai avremmo pensato
avremmo mai avuto
in vita
e ora che siamo lassù
appesi come tante ragnatele al muro
ne siamo orgogliosi
e non vorremmo mai esser vissuti.
Non siamo altro che gocce d’inchiostro
sull’affresco ottocentesco della passione
che risiede in tutti voi
ma di cui siamo i soli ad avere le chiavi.
Non siamo altro che quadri
che nessuno guarderà mai
perché non siamo opere d’arte
siamo solo macchie di sporco.

Cosa vede in noi una persona che ci guarda? Un conoscente può cogliere aspetti di noi che abbiamo cercato di trasmettere, ma un estraneo? Cosa vede di tutto quello che trasudiamo? Cosa sente di tutto ciò che diciamo, cosa pensa quando ci sente parlare, ci vede muoverci, ci osserva respirare?
Un sorriso, un sussurro, un accenno di vita, un ricordo di un’emozione, un respiro di voluttà, un singolo passo per entrare nel teatro della discordia. I suoni delle trombe del paradiso. Le fanfare della venuta dell’inferno. La pace. La serenità. L’amore. Poi nulla più.
Se riusciamo a far vedere più di questo, dovremmo esserne fieri, o avere una paura tremenda. Vorrebbe dire che siamo troppo trasparenti, come un cristallo. Ma altrettanto fragili. Altrettanto delicati. Altrettanto volubili. E in un attimo, rotti.

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