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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
Agosto 2009

31 agosto 2009
L'OCCHIO

Mordi, Erode. Morditi il labbro ormai ebbro di rudi ordini, e giaci in silenzio. Ti piace ribadire d'ora in ora quella dura sentenza di rara arroganza, ti piace ridire ancora e ancora a quali orrende febbri hai condannato orde di padri e madri, tu che ti credi furbo ma godi soltanto di una rara sorte di lebbra dorata, ereditata dal maglio di un fabbro in giorni di danza che furono migliori.

Quante generazioni imperfette credi di aver trascinato nell'oblio? Quante dannazioni perfette ti giungono all'orecchio, di sera, quando finalmente crolli sotto il peso delle fatiche del giorno? Tante, troppe, forse una. Ma è sufficiente a deriderti e canzonarti, e a farti sentire come se centinaia di radi fili d'erba ti stessero schiacchiando sotto il loro peso inesistente, ma pressante come una colpa indelebile, come un crimine macchiato di punteggiatura inesistente. Gli anziani ti hanno ordinato, e tu hai eseguito: a morte la gioventù, a morte la speranza, a morte ogni fiato che non abbia ancora raggiunto la giusta età. L'età ritenuta santa, mantenuta lenta, contenuta d'onta. E tutto questo, per cosa? Per sostenere l'illusione, la speranza di una continua consistenza che oramai non esiste più, designata all'ignoto come sono destinati a cadere i quadri che ti osservano dalle pareti delle tue stanze, quando dormi, quando la tua coscienza perde conoscenza, quando finalmente giaci in silenzio. Cadranno come crollano le mille lacrime di pioggia da quella luna di cenere e tenere valli lontane, quella luna che ancora ti osserva e che innalza le amare maree quando meglio le aggrada, quando il parco Plutone supera l'orizzonte dell'immanente, quando anche le forti formiche si fermano infine per riposare.
E cosa resta del giorno? Cosa resta di tutte quelle corse all'ultimo minuto, per sollevare la polvere da quelle tavole malamente imbandite che non riescono neanche a sfamare un banchetto di convitati? Niente, se non il ricordo di una frase, il ricordo di una parola di troppo, il ricordo di un ordine perentorio che accompagnerà la tua anima fino al prossimo risveglio, Erode. Niente, se non il rimpianto di aver tarpato le ali a quelle pupille che nulla chiedevano se non di continuare a sbattere, ad aprirsi e a chiudersi, per sempre: fino al sorgere di un nuovo giorno, fino a che una lama non strapperà via il suo cuore e riderà, riderà, riderà ancora, riderà sempre più forte. Niente sarà come prima, tutto è stato mutato e mutilato dalla tua voce, dalla tua gola, dal tuo diaframma autoritario e sicuro.

Mordi, Erode. Morditi il labbro e ricorda quell'occhio che ti priverà del sonno, molto più di cento quadri appesi tutto intorno alla tue stanze, molto più di un mare di steli che fragili tendono il corpo verso la luce eterna. Bruciali vivi, rendili esangui, ma non potrai mai fermare la parola che continuerà a volare sulle ali della cenere, sotto il tenue fiato delle stelle, fino a quella luna lontana che ti si avvicina ogni giorno di più, come una promessa irrisolta. Come una condanna da adempiere, finalmente.

Tra tante iridi aride, alla tua che ancora arde e ride.

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11 agosto 2009
GOFFO [REPRISE]

12 giugno 2006.
Le statistiche dicono che il 30% degli incidenti individuali succedono in bagno, ed il 20% sul luogo di lavoro. A scivolare nei cessi in Siemens, praticamente, scopro di essere un vero "numero". Ho ancora il culo dolorante per la caduta: le piastrelle sono dure, anche quando si cerca di fermare la caduta aggrappandosi scompostamente al lavandino... Insomma. Sono scivolato nel cesso di Siemens. Ho preso una culata, facendo "SGUISH". Mi sono salvato appoggiandomi scompostamente al lavandino. Ci pioveva dentro, c'era bagnaticcio, e sono scivolato. Punto.

22 dicembre 2006.
Torno verso casa dopo Inferno, sono circa le due di notte. Sono appena uscito dal casello autostradale di Rapallo, e mi sto inerpicando su per l'angusta strada campestre di casa. Tutto intorno, tira un vento fortissimo che mi costringe ad andare piano. Veramente piano. A cinquecento metri da casa mia, un ulivo in mezzo alla strada. Il tronco spezzato, e l'albero che taglia esattamente a metà il manto stradale. Prima bestemmia.
Scendo e comincio a spingere, tirare, facendo leva su tutti i rami che mi sembrano migliori. Inciampo, tiro, incespico, tiro, spingo, "spostati maledetto!" STUMP STUMP, anf anf anf. Prendo due facciate per terra. Le imprecazioni si sprecano. Tiro, spingo, anf anf, "cristo!", scivolo e la sciarpa mi si incastra in un ramo che quasi mi impicco. Bestemmio.
Spingo spingo spingo, scivolo ancora e cerco di aggrapparmi scompostamente ai rami dell'ulivo che prontamente decidono di rompersi. Mi alzo, "porco il tuo!", spingo, tiro, scivolo, anf anf ANF ANF, spingo, tiro, tiro "ahiaaaaaAAAA!", bestemmio. I rami non collaborano affatto.
Dopo mezz'ora di tentativi riesco finalmente a spostare il tronco quel tanto che basta per passarvi con la macchina. In tutto il tempo, dal finestrino abbassato uscivano note natalizie che accompagnavano le mie imprecazioni notturne.

2 maggio 2008.
A pranzo decido di farmi un paio di toast utilizzando il tostapane. Dentro ci metto sottilette e fettine di prosciutto. Le faccio bollenti. Ma proprio bollenti. Prendo il primo toast e inizio a mangiare. Al secondo morso, una bolla di formaggio fuso e incandescente fuoriesce dal toast e va a finire direttamente sul mio labbro inferiore. URLO. Ritrovo tutta la mia religiosità perduta, in quel momento.
Decido quindi di finire primo toast, facendo bocconi piccoli piccoli per evitare altro formaggio fuso. Prendo il secondo toast, ci tiro tre morsi. Al quarto, urlo di nuovo. Il formaggio FUSO è decisamente subdolo.

10 agosto 2009.
Sto dormendo a pelle d'orso, sdraiato nudo sul letto per combattere l'afa padana. D'un tratto, tuoni e lampi mi destano per farmi notare che sta iniziando a grandinare, e mi ricordo immediatamente che ho lasciato la finestra aperta, in cucina, per far entrare un po' di fresco notturno. Senza accendere la luce [e senza mettere le ciabatte] mi dirigo a chiudere la finestra prima che inizi a piovere in casa. Ma è già troppo tardi: a due metri dall'agognato traguardo, i miei piedi scivolano su di una pozzanghera traditrice già formatasi, e cado rovinosamente per terra urtando con le braccia in tutte le direzioni possibili, proseguendo poi la scivolata fino a fermarmi contro la parete. Dolori ovunque, e grandine sulla faccia. Riesco a sollevarmi a fatica e a chiudere il diluvio fuori, e torno barcollando a letto: la posizione a pelle d'orso, oramai, è l'unica che non mi faccia sentire dolore per la fortunata [leggi: di culo] caduta notturna.

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