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Daniele Assereto
Daniele
Assereto


 
Ottobre 2014

9 ottobre 2014
IL GIARDINO DELLE PAROLE

Se Gabriele D'Annunzio non avesse scritto "La pioggia nel pineto"...
Se fosse vissuto circa un secolo dopo...
Se avesse visto qualche film di Hayao Miyazaki...

Se, se, se...

Domande ipotetiche a parte, il film d'animazione "Il giardino delle parole" di Makoto Shinkai è una vera e propria gioia per gli occhi e per la mente. Nonostante la breve durata [46 minuti comprensivi di titoli di coda], la pellicola colpisce immediatamente per l'uso dei colori e l'animazione degli sfondi. E non crediate a quanto potreste leggere su Wikipedia o su altri siti di informazione cinematografica, perché: i veri protagonisti sono le gocce d'acqua. Gocce che cadono dal cielo, gocce che disegnano laghi, gocce che aumentano il passo seguendo il riflesso delle figure umane e delineano ogni singola foglia degli alberi. La stagione delle piogge diventa una metafora per la descrizione dell'animo umano, quasi fosse una sorta di rifugio in cui ripararsi e coltivare i propri sogni.

Okay, nel film è narrata anche la storia di un uomo di 15 anni e una ragazza di 27, e di come le loro vite si intreccino nel ritmo cadenzato dell'acqua piovana. È ovviamente una storia triste, accompagnata da melodie di pianoforte che aggiungono grammi di mestizia alla già plumbea situazione, fino al climax finale in cui alle gocce di pioggia si aggiungono anche inevitabili litri di lacrime. E sarebbe una storia banale nel suo svolgimento e nella sua scontata conclusione, se non ci fosse quella cornice di gocce che, poco per volta, inizia ad espandersi sempre di più diventando la tela stessa su cui si poggia l'intero film. E che lo salva.

Sono sicuramente tre quarti d'ora spesi meglio che dedicando la propria attenzione a polizieschi italiani o gare di vallette. E se il 2013 ha visto la nascita di questa breve pellicola, non vedo l'ora che giunga il prossimo lavoro, sperando possa essere di più ampio respiro. Fino ad allora, cercherò una pura risposta effettiva alle mie nuove domande ipotetiche...

1999

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2 ottobre 2014
GLENN COOPER - DANNATI

Glenn Cooper s'è convinto di poter essere un misto tra Mark Twain e Dante Alighieri.

Partendo da fantomatici presupposti fisici [in pratica: un esemplare di Large Hadron Collider, ma più grosso più bello più fico e solo perché fatto dagli americani] il libro finisce immediatamente nel discorso spiritual-religioso-newage a cui Cooper ci ha già ben abituati con i suoi libri precedenti: viene aperto un passaggio accidentale verso l'Inferno, che è visto come un mondo parallelo dalla stessa conformazione della Terra in cui finiscono tutte le anime al momento della morte, e da lì inizia un'avventura alla ricerca della donzelletta perduta [che in realtà è un fisico delle particelle] da parte dell'eroe berretto verde.
La storia sembra più un pretesto per mettere insieme tutta una serie di personaggi defunti e che l'autore vuole descrivere all'Inferno: incontriamo quindi Enrico VIII, Himmler, Garibaldi, Stalin, il Caravaggio, etc... E tutti raccontano ai protagonisti la storia della propria vita, una sorta di confessione in cui si vantano delle peggiori azioni che li hanno portati in quel posto: alla terza volta, questo espediente narrativo ha già frantumato le palle.

Il protagonista americano, che ovviamente si chiama John, arriva in questo mondo [che è rimasto praticamente fermo a centinaia di anni fa in quanto ad evoluzione] e si mette subito a dare lezioni di tattica militare e di balistica, insegnando a costruire cannoni più potenti e bombe a mano: insomma, una versione potenziata di "Un americano alla corte di re Artù", ma senza la freschezza che Sam Raimi aveva infuso in Ash ne "L'armata delle tenebre".
Ad un certo punto, confesso, la storia e le situazioni mi hanno ricordato di più una versione distorta del viaggio di Elena Gilbert all'Inferno per liberare il suo Grande Amore ne "Il diario del vampiro" [i romanzi, eh, non la serie televisiva: esiste una enorme differenza, ma adesso non posso dilungarmici] di Lisa J. Smith, vale a dire: adesso raccontiamo a orde di lettori la nostra visione di moderno viaggio nell'Ade, e tutto per impartire il solito pippettone moralistico pieno di buoni sentimenti del tipo "siamo all'Inferno ma vogliamoci bene", "siamo all'Inferno ma mostriamo l'onore", "siamo all'Inferno ma uniamoci e preghiamo". Bah.

La lettura scivola via velocemente, perché Glenn Cooper è un ottimo mestierante. Memore di trucchi degni della miglior tradizione feuilleton, il romanzo raggiunge le quasi 500 pagine alternando banali colpi di scena a forzature di trama che a tratti rasentano il ridicolo, e non fanno che farmi rimpiangere quel capolavoro indiscusso che è "Argento vivo" di Neal Stephenson. In più, l'opera di Cooper nemmeno finisce [ovvio: chi non fa una trilogia al giorno d'oggi?] e quindi ora non ci resta che aspettare "Dannati II", il ritorno all'Inferno. O questa volta toccherà al Purgatorio e Glenn Cooper riuscirà a confezionare la sua personale "Divina Commedia" in pura salsa new-age?

Abbiate pietà.

1998

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